Robert Malley, a sinistra, insieme al segretario di stato americano John Kerry a Losanna durante i colloqui sul nucleare iraniano (foto LaPresse)

Che ci va a fare in Israele l'inviato (controverso) di Obama?

Rolla Scolari
Robert Malley è l'inviato per l'Amministrazione americana nel medio oriente, il suo obiettivo è risolvere il conflitto israelo-palestinese, ma la sua carriera potrebbe fare arrabbiare Netanyahu

Milano. Litigano, si beccano ogni giorno di più gli Stati Uniti e Israele dove il premier Benjamin Netanyahu si avvia a essere re per un quarto mandato. Così, Robert Malley, l’uomo che da poche settimane il presidente Barack Obama ha nominato nuovo inviato per il medio oriente, dovrà inserirsi negli screzi tra la sua Amministrazione e un primo ministro che poche ore prima del voto del 17 marzo ha dichiarato che la nazione palestinese non avrà visto la luce durante un suo mandato, lasciando stupefatti e infastiditi i leader internazionali, da Washington a Bruxelles. A preoccuparli c’è anche la coalizione che Netanyahu sta costruendo, molto probabilmente formata anche dalla destra ultra-nazionalista e ultra religiosa, poco incline a compromessi territoriali e di ogni genere sul conflitto israelo-palestinese.

 

Benché il premier israeliano abbia fatto un passo indietro a vittoria ottenuta – “Voglio una soluzione a due Stati sostenibile e pacifica” – il presidente Obama ha detto all’Huffington Post che i commenti di Netanyahu rendono difficile la via del negoziato. Di negoziati in realtà tra israeliani e palestinesi non se ne parla da tempo. Ci sono stati colloqui, infiniti round di colloqui indiretti falliti. Da tempo non ci sono appuntamenti né date cui tendere per rilanciare la road map. Il medio oriente del conflitto israelo-palestinese in cui arriva Robert Malley è quello dello stallo e non certo quello delle trattative del 2000 a Camp David, in cui il nuovo inviato è stato attivo negoziatore nella squadra del presidente Bill Clinton, accanto a Dennis Ross e Aaron David Miller.

 

Il suo nome in passato aveva fatto nascere qualche controversia che, in un momento di tensione tra Stati Uniti e Israele, è stata ripresa da alcuni giornali israeliani e organizzazioni americane pro Israele. Nel 2008, Malley era consigliere informale per il medio oriente della campagna presidenziale dell’allora senatore Obama. In quel periodo, però, in qualità di direttore del programma mediorientale del think-tank International Crisis Group, Malley aveva incontrato diverse volte leader del gruppo islamista palestinese Hamas, sulla lista nera delle organizzazioni terroristiche del dipartimento di stato. E questo gli era costato il posto nella campagna Obama, benché si trattasse di una consulenza informale: era stato allontanato immediatamente dalla squadra e la notizia aveva sollevato le polemiche e attirato su Malley le accuse di avere posizioni anti-israeliane. I suoi ex colleghi della squadra clintoniana degli anni in cui in medio oriente si trattava scrissero una lettera sulla New York Review of Books, “In Difesa di Robert Melley”. “Questi attacchi sono ingiusti, inappropriati e sbagliati”, scrivevano. Tra le firme celebri, accanto a quelle di Dennis Ross e Aaron David Miller, c’è anche quella di Martin Indyk, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, dal 2013 al 2014 inviato speciale di Washington in medio oriente per la ripresa dei colloqui tra israeliani e palestinesi, mai ripresi.

 

[**Video_box_2**]La questione del 2008 non ha impedito a Malley di lavorare nel 2014 per la Casa Bianca, al National Security Council, sul dossier del Golfo e dell’Iran (non sulla questione del nucleare di Teheran). Le controversie, però, hanno origine più lontana. Già nel 2001, un suo articolo, sempre sulla New York Review of Books, aveva creato un violento dibattito, era valso all’autore l’accusa da parte di gruppi pro-Israele di avere posizioni troppo filo-palestinesi. Nel lungo saggio, nato dalla sua esperienza di negoziatore a Camp David, Malley metteva infatti in dubbio la versione dell’“inaudita offerta di Ehud Barak e l’intransigente no di Yasser Arafat”, la versione secondo la quale “il fallimento nel raggiungere un accordo finale è attribuito, senza grandi dissensi, a Yasser Arafat”. “Per un processo di tale complessità – scriveva allora Malley – la diagnosi è straordinariamente superficiale”.

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