Un manifesto di Assad a Damasco (foto LaPresse)

Un test di realpolitik da Assad a Israele

Daniele Raineri
Washington dice che non vuole negoziare con il dittatore siriano, ma ormai il messaggio è là fuori

Roma. La realpolitik americana sta facendo del presidente siriano Bashar el Assad un uomo invincibile. La questione della crisi in Siria non è mai sembrata come ora una pedina di scambio nella grande trattativa ancora aperta tra Iran e America sul programma nucleare – una questione che l’Amministrazione Obama vuole chiudere con un accordo di pace che considera storico e più importante di tutto il resto. Realpolitik: prima l’accordo con l’Iran, poi si penserà al resto Siria inclusa (che è alleata con l’Iran e quindi cade sotto il suo ombrello di protezione). Israele non la pensa così a proposito di Iran e Siria, ma non ha influenza su questa linea obamiana e oggi è impegnato nelle elezioni per cambiare o confermare il governo.

 

La dimostrazione più chiara del cosiddetto Grand Bargain (il Grande scambio) tra americani e iraniani è arrivata domenica con l’intervista della rete Cbs al capo della diplomazia americana, John Kerry, fresco di colloqui in Svizzera con il capo della diplomazia iraniana Javad Zarif. A cinque anni esatti dall’inizio della crisi siriana Kerry ha detto per la prima volta che gli Stati Uniti negozieranno con il presidente siriano Bashar el Assad per raggiungere una qualche transizione politica che metta termine alla guerra: “Alla fine dovremo negoziare. Stiamo facendo pressione per spingere Assad a farlo, stiamo studiando dei modi per fare pressione su di lui e costringerlo a sedersi ai negoziati”. Subito dopo una portavoce del dipartimento di Stato, Marie Harf, ha chiarito che non c’era nulla di nuovo, “abbiamo sempre detto che c’è bisogno di rappresentanti di Assad per un processo di pace, non vogliamo negoziare direttamente con Assad e il segretario oggi non ha detto questo”. Inoltre è chiaro che Kerry si riferisce a una transizione politica che si concluderà con la fine del potere di Assad in Siria. Le grandi tv arabe però non se ne sono date per inteso e domenica sera rilanciavano il messaggio a ciclo continuo: da oggi gli americani sono pronti a trattare con Assad.

 

Anche il presidente siriano deve avere capito così, perché ieri con la solita sfrontatezza corrucciata con cui gestisce l’ingestibile a Damasco ha detto che è stanco di parole vuote, ora da parte di Kerry vuole fatti, un’alleanza concreta – e soltanto allora si fiderà. E pensare che meno di due anni fa minacciava l’America di rappresaglie terroristiche oltremare.

 

La riconciliazione diplomatica tra l’Amministrazione Obama e il presidente siriano Bashar el Assad è uno smottamento lento che va avanti da tempo. La data d’inizio  è la fine di agosto 2013, quando il presidente Barack Obama stava per firmare l’ordine di attacco contro la Siria, pochi giorni dopo una strage con armi chimiche che aveva fatto centinaia di vittime alla periferia della capitale Damasco. Obama uscì per una passeggiata nel giardino delle Rose assieme al suo capo di staff, Denis McDonough, che il Wall Street Journal ha descritto come un sostenitore della necessità di non toccare Assad per non complicare la situazione. Quando tornò dalla passeggiata il presidente si era convinto a frenare l’attacco imminente contro la Siria.

 

Venerdì il direttore della Cia, John Brennan, ha detto a un evento pubblico che l’America non vuole far collassare il governo e le istituzioni siriane e che c’è il rischio che sia lo Stato islamico a riempire il vuoto lasciato nel caso da Assad. “L’ultima cosa che vogliamo è consentire loro di marciare su Damasco”.

 

A metà novembre era circolata persino la voce che il dipartimento di Stato americano era pronto a riaprire l’ambasciata a Damasco, chiusa dal febbraio 2012. Il dipartimento stava sondando alcune compagnie di trasporto per fare un trasloco pesante da un porto o aeroporto siriano fino al quartiere Abu Rumanah della capitale, dov’è la sede dell’ambasciata, e anche per trasferire i colli dei diplomatici americani alle loro residenze. Damasco e Washington non hanno mai tagliato ufficialmente i rapporti diplomatici – che ora passano attraverso l’ambasciata ceca. Poi non successe nulla e nel frattempo la Siria ha riaperto l’ambasciata in Kuwait – e quindi ha rimesso piede nei paesi arabi del Golfo.

 

Ieri i media di Damasco hanno festeggiato l’ammissione da parte americana, infine, che Assad è un leader legittimo. Il giornale Al Watan scrive che è “il riconoscimento che la politica americana in Siria è tutta sbagliata e che Assad non può essere sfidato dal punto di vista militare”. Il quotidiano Al Baath, organo del partito al potere, dice che “sono la conferma ancora una volta del fallimento del piano sionista americano contro la Siria”. Amen.

 

[**Video_box_2**]Questa realpolitik può funzionare, almeno? Gli stati arabi del Golfo, alleati scettici di Washington, hanno taciuto dopo le parole di Kerry, ma un nugolo di analisti ha  parlato in vece loro: “Bashar non ha alcuna legittimazione dopo avere ucciso la sua popolazione e cacciato dalle loro case undici milioni di persone. Come può (Kerry) sedersi con lui e tenerlo al potere? E’ una grande barzelletta per noi”, dice a Reuters Abdulaziz al Sagerm, capo del think tank saudita Gulf Research Center. “Il fatto che Assad sia ancora al suo posto è qualcosa con cui abbiamo imparato a convivere e stiamo accettando questo fatto come un accordo ad interim. Se Kerry stava parlando dello stesso accordo ad interim – un anno o due fino a quando i negoziati non porteranno risultati – allora capiamo”, dice Sami al Faraj, un consigliere kuwaitiano del Gulf Cooperation Council, la lega dei paesi arabi che decide la politica nel Golfo. “Ma se invece s’intende che Assad resterà al potere dopo i negoziati: è inaccettabile”. Ieri la Francia ha detto che non intende negoziare con il presidente siriano.

 

Nel frattempo l’italiano Staffan de Mistura, diventato inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria (prima si occupava del caso dei due Marò italiani, ricordate?) sta tentando anche lui di negoziare un piano di pace speciale a partire dall’area di Aleppo. Si tratta del cosiddetto “freeze”, il congelamento, e consiste in tante tregue locali decise e approvate dal basso, dalle singole comunità assieme con l’esercito siriano – e non dal governo di Assad con i rappresentanti di un’opposizione che non esiste. I ribelli e i soldati decidono il cessate il fuoco soltanto e solamente sul loro piccolo pezzo di fronte. Chi ha già provato questo tipo di pace dice però che non funziona, che il governo siriano tenta di concludere il cessate il fuoco sempre in posizione di vantaggio, lo intende come preludio alla capitolazione, e allora il “freeze” si è fermato. Su tutto il negoziato con Assad incombe sempre una domanda irrisolta: come si fa a esercitare pressione su di lui?

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)