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Innovazioni d'Italia /1

Smart road to Bergamo. Un caso unico di innovazione e sinergie fra impresa e politica

Stefano Cingolani

Storia di un viaggio lungo l’autostrada A4, dove progresso tecnologico e resilienza hanno risollevato un territorio martoriato dalla pandemia. Un esempio di collaborazione tra istituzioni e mercato, a cui ora è chiesto un altro salto di qualità

Si levano all’alba, accendono i motori e attraversano l’Italia. Da Milano a Napoli, da Torino a Venezia. L’Italia è un Pi greco. La prima gamba scende lungo l’Autostrada del Sole, la seconda lungo l’Adriatica, sormontate dalla Serenissima, in sigla sono l’A1, l’A14 e la A4. Tre nastri d’asfalto che hanno trasformato la geografia urbana, economica, sociale. Ha cominciato l’Autosole, un capolavoro di efficienza costruttiva, oggi è un fiume in piena che spesso tracima. L’aereo con la navetta Roma-Milano aveva arricchito l’Alitalia poi il treno ad alta velocità ha imposto la sua legge ferroviaria. Eppure né aereo né treno hanno sostituito l’autostrada. Il traffico merci non ha alternative per il momento, anzi l’esplosione dell’e-commerce lo ha moltiplicato, e il tramonto dell’automobile a lungo annunciato non è ancora all’orizzonte: ibrida, elettrica o ancora a benzina, la macchina che ha cambiato il mondo (Mit) continuerà a cambiarlo cambiando essa stessa. Lungo questo Pi greco sono cresciute e si sono trasformate le più grandi aree metropolitane e le città di medie dimensioni, bandiere del modello italiano, a partire da quella civiltà dei comuni che rese l’Italia, povera di risorse naturali e divisa, l’area più ricca e contesa d’Europa. L’onda dell’innovazione attraversa l’antico paradigma e lo cambia, ancora una volta lungo l’autostrada. Così, abbiamo cominciato un piccolo tour per raccontare cinque realtà e la loro metamorfosi. Una selezione difficile vista la gran varietà del paese e nel farla abbiamo scoperto un fermento che non ci aspettavamo. La prima tappa è stata nel cuore manifatturiero del paese.

Bergamo. Il viaggiatore che un brumoso mattino milanese si getta con la sua auto nella coltre di smog irradiata da un sole timido e lattiginoso incontra subito il primo tratto della smart road, una “quarta corsia dinamica” (così è definita dai tecnici) perché si apre e si chiude a seconda delle necessità in un tratto da viale Certosa fino all’area di servizio Lambro tra i più trafficati, con picchi che arrivano a 200 mila veicoli al giorno. E’ un esperimento, uno dei tanti per quella che viene chiamata mobilità intelligente, l’ultima frontiera lungo la quale si è lanciata l’Aspi, acronimo di Autostrade per l’Italia. Con la nuova infrastruttura tecnologica per ogni ora sui 10 chilometri previsti si toglie una tonnellata e mezzo di anidride carbonica. Tutto deve diventare intelligente, la casa, il lavoro, il divertimento, l’informazione. Smart insieme a resilienza è la parola che ho più ascoltato nel mio percorso che da Bergamo si proietta verso Brescia. Accoppiate l’anno scorso come capitali della cultura le due città ormai si muovono in tandem, con l’ambizione di essere il cuore e il cervello di una quinta rivoluzione industriale lungo l’asse del nord. 

L’A4 è stata chiamata l’autostrada della manifattura, vuol diventare l’autostrada dell’innovazione: “Sì, proprio come la Massachusetts Route 128, l’autostrada tecnologica d’America che ha portato l’alta tecnologia fuori dalle aule di Harvard e dai laboratori del Mit”, ci spiega spinto dall’entusiasmo Stefano Paleari, docente all’Università di Bergamo, consigliere del ministero della Ricerca per il Pnrr, presidente della fondazione Anthem creata per unire ingegneria e medicina. Siamo a Dalmine nel campus universitario bergamasco. Poco lontano il centro siderurgico che ha fatto la storia, nato tedesco nel 1906 come Mannesmann, passato dopo la Grande Guerra nelle mani della Banca commerciale poi all’Iri negli anni 30, un pilastro del miracolo economico, campione di efficienza. La Dalmine viene acquistata dalla Tenaris del gruppo Rocca con la privatizzazione della Finsider nel 1996. Oggi si prepara a diventare la prima acciaieria italiana alimentata a idrogeno, la seconda in Europa dopo la svedese Hybrit. La vecchia industria vuol rinascere nuova, non più grigia, ma verde. Una trasformazione che smentisce i catastrofismi declinisti con i quali si sono alimentati i populismi di destra e di sinistra.

 

La pandemia s’è abbattuta su Bergamo come un flagello biblico. Tutto sembrava compromesso, crollava una certa quiete pasciuta e sonnolenta che aveva superato anche alcuni choc non indifferenti: l’addio della Italcementi dei Pesenti, vissuto come un tradimento; la scomparsa delle banche locali ingoiate dai grandi gruppi nazionali (come la Ubi acquisita da Intesa Sanpaolo); la trasformazione socio-culturale con una presenza di stranieri che ha superato ormai un quinto della popolazione. La città orobica contesa da Milano e da Venezia, con le sue mura inespugnabili e la sua soddisfatta ricchezza, poteva soccombere sotto i colpi della pandemia, invece ha trovato le energie per risollevarsi e cambiare. E’ una storia che non è stata raccontata abbastanza, forse per quel carattere dei bergamaschi i quali amano fare e non dire, agire e non apparire. Giorgio Gori sindaco dal 2014 e ora in pista europea per il Pd, ci racconta una città che aveva perso le proprie ambizioni e invece si è aperta, con un’università che aumenta gli studenti, un turismo raddoppiato in dieci anni, la capacità di superare la crisi della vecchia manifattura e, soprattutto, la grande forza di resistere e trasformarsi dopo la tragedia del Covid 19. 

Sono ancora negli occhi i camion che quattro anni fa trasportavano le bare. Nel “bosco della memoria” il 18 marzo vengono commemorate le vittime. “Bergamo ha resistito, ma occorreva un salto”, commenta Gori. L’occasione arriva nel 2020 con la candidatura a capitale italiana della cultura presentata mentre anche Brescia aspirava al riconoscimento. C’è una storica rivalità tra le due città separate da 52 chilometri e unite dall’autostrada A4. Perché non superarla e candidarsi insieme? Gori e l’allora sindaco bresciano Emilio Del Bono, anche lui del Pd, decidono di gettare alle ortiche le beghe di campanile e vincono la scommessa: lo scorso anno quasi 12 milioni di turisti hanno partecipato alle iniziative di due città che tradizionalmente erano fuori dal Gran tour. Ma il matrimonio di convenienza diventa qualcosa di più. 

Si muovono in sintonia le università e le istituzioni culturali e non solo, le associazioni degli industriali decidono di tenere insieme l’assemblea annuale e scelgono un luogo estremamente simbolico: Palazzolo sull’Oglio dove nel 1191 si svolse la battaglia chiamata della Malamorte. Con Brescia c’era Milano, con Bergamo invece Cremona, Pavia, Lodi e Parma. Vinse Brescia, l’imperatore Enrico VI impose una pace, ma la rivalità è durata per oltre otto secoli, è diventata politica, geografica, economica, sportiva (l’Atalanta orgoglio bergamasco con il Brescia in serie B). Chi viene da fuori per lo più stenta a capire quale salto è avvenuto con quella candidatura congiunta, come due cugine a lungo separate che si ritrovano per affrontare sfide comuni, difficili se non impossibili da superare restando chiuse nelle proprie mura. E’ esattamente quel che deve fare anche il fitto tessuto di imprese che ha reso ricca questa parte d’Italia dove non esiste disoccupazione (3 per cento in media, 1,5 per cento tra i maschi in età lavorativa). Un benessere tutt’altro che scontato di fronte alla nuova grande rivoluzione industriale.

Aprirsi, collaborare, unirsi. E’ la filosofia del Kilometro rosso, questa lunga quinta che corre parallela all’autostrada e si apre sul polo dell’innovazione tra i primi in Europa, un parco scientifico tecnologico dove s’incontrano imprese e centri di ricerca, la Brembo e l’Istituto Mario Negri, la Confindustria bergamasca e le start up. Per spiegare di che cosa si tratta nulla è meglio dell’aneddoto che ci racconta il direttore Salvatore Majorana nato a Catania, ingegnere elettronico che ha diretto il Technology transfer all’Istituto italiano di tecnologia di Genova. Potremmo chiamarlo l’apologo del brevetto e del caffè. E’ successo proprio in una pausa davanti alla macchinetta delle bibite. Un tecnico della Brembo discuteva di come ridurre l’erosione della pasta metallica che ricopre le pastiglie dei freni e l’inquinamento da essa provocato. “Perché non provare con il cemento”, propose un ingegnere della ex Italcementi passata nel 2016 alla tedesca Heidelberg. Sembrava una battuta paradossale, invece ha funzionato: ci hanno lavorato per tre anni in equipe ricercatori e tecnici operativi, infine i test hanno avuto successo, anche se i freni al cemento non trovavano ancora un mercato. Ora uno dei colossi americani dell’auto (il nome è ancora riservato) ha deciso di provarli. E’ una storia di confronto e di lavoro in comune, 10 per cento di ispirazione 90 per cento di sudore come disse Einstein a chi gli chiedeva il segreto delle scoperte tecnico-scientifiche. Majorana ci tiene a sottolineare che non sarebbe stato possibile senza un luogo in cui vengono scambiate liberamente esperienze, conoscenze, intuizioni e lavoro tra discipline diverse. E il parco è nato proprio così. Vent’anni fa c’era solo un terreno della Brembo accanto all’autostrada. Alberto Bombassei che presiede l’azienda di sistemi frenanti fondata dal padre decise di creare un centro di ricerca interdisciplinare privato, ma aperto al pubblico e a organizzazioni come l’Istituto Mario Negri, profit e no profit insieme. L’archistar francese Jean Nouvel ebbe l’idea di costruire un muro rosso lungo un chilometro parallelo all’A4. Ora è un campus in continua espansione: 80 aziende, 2.500 ricercatori, 70 mila ospiti, delegati, imprenditori da tutto il mondo. Vuole  essere il cuore e il cervello della transizione economica basata su tre presupposti: condividere, innovare, competere. Un obiettivo ambizioso anche perché rompe la tradizione di difendere il proprio orticello così diffusa nell’universo di imprese piccole e familiari.

 

Condividere è la missione anche della fondazione Anthem e dei suoi 28 progetti in quattro anni, finanziati dal Pnrr con 123 milioni di euro. La missione è colmare il gap dell’assistenza sanitaria nei territori soprattutto per i pazienti fragili. Qui il matrimonio è tra ingegneri, economisti e medici, nasce dalle università (il Politecnico di Milano, la Bicocca, Bergamo, Catania) e da centri di ricerca, strutture pubbliche e imprese private. Il professor Paleari ci accoglie a Dalmine presso la farmacia della facoltà di Medicina in un edificio semivuoto in cerca di un perché, diventato il centro pulsante dell’iniziativa. Percorrendo l’autostrada s’incontrano i lavori per il nuovo svincolo grazie al quale si debbono ridurre le lunghe code e l’inquinamento. Un sollievo anche per gli scienziati e i ricercatori che fanno la spola da Milano o dalla provincia bergamasca. Attorno a un lungo tavolo troviamo alcuni protagonisti di primo piano che raccontano i loro progetti. Digitalizzazione dei pronto soccorso,  telemonitoraggio a distanza, creazione grazie all’intelligenza artificiale di “gemelli digitali”, magliette da indossare per controllare il cuore, sensori applicati al materiale tessile, raccolta dei dati per penetrare il mistero della Sla, un microtomografo che consente biopsie tridimensionali molto più accurate con una macchina molto più piccola utilizzabile anche in ambulatorio. Sono solo alcuni degli esempi che abbiamo scritto sul taccuino. 

 

Il balzo in avanti tecnologico prepara la trasformazione di un territorio che non può restare se stesso. In realtà non lo è già più e sta cercando un nuovo paradigma. “Abbiamo avuto una generazione di imprenditori, oggi ottantenni, che sono stati veri fuoriclasse”, sottolinea Gori. La gestione del passaggio generazionale è complessa anche perché s’accompagna alla trasformazione del business originario. Alla crisi del 2008-2010 il tessuto produttivo ha reagito puntando sulle esportazioni che sono addirittura raddoppiate; tra Bergamo e Brescia, lungo e attorno all’autostrada, sono cresciuti come funghi dopo un acquazzone i formidabili fornitori di componenti per l’industria mondiale a cominciare da quella tedesca. Eccellenti macchine per fare macchine, tuttavia la quota prevalente di valore aggiunto non resta qui, viene assorbita da chi assemblea e vende il prodotto finito. Quel che occorre adesso è risalire nella catena del valore. Come? Paolo Piantoni, direttore generale della Confindustria bergamasca, usa una formula: “Siamo subfornitori, dobbiamo diventare superfornitori e venire riconosciuti come tali”. E fa l’esempio di Intel: tutti sanno chi produce il cuore digitale di un computer o un telefonino, è un marchio riconosciuto al quale si guarda nell’acquistare il dispositivo elettronico; invece pochi sanno cosa c’è nel cuore di un’automobile. Ci sono poche eccezioni, per esempio i freni della Brembo, gli pneumatici della Pirelli, debbono diventare una regola. Occorre un sostegno, una strategia, un made in Italy non solo per l’alimentare o la moda, ma anche per la meccanica che è la voce principale dell’export italiano nel mondo, proprio mentre i distretti cambiano dimensione e contenuti, mentre l’intero universo della componentistica viene riplasmato dalla rivoluzione digitale. 

 

Grandi progetti dietro la quinta del Kilometro rosso, nei laboratori, nelle fabbriche. Progetti che hanno bisogno di nuove infrastrutture a cominciare da quelle materiali. La vecchia industria è cresciuta attorno alle strade, poi sono arrivate le autostrade, adesso c’è un passaggio ulteriore. Per sviluppare la vettura automatica senza pilota occorre accompagnarla con corsie riservate e sensorizzate, ci dice Majorana. “La mobilità intelligente nasce da un dialogo continuo tra il mezzo e la base che lo sostiene, tra l’auto e la strada”. La digitalizzazione può rendere concrete idee che sembravano balzane, per esempio il platooning: allineare i Tir su una corsia come se fosse un lungo treno farebbe risparmiare tempo, denaro, inquinamento, aumentando la sicurezza. Ma per tutto questo rinviamo alla prossima puntata.