Il destino dell'acciaieria

Ilva, che si fa? La battaglia per l'acciaio va portata in Europa

Oscar Giannino

Numeri per capire il futuro italiano e come il nostro paese può continuare a produrre senza essere schiacciato dagli aiuti di stato a Francia e Germania

Ieri Marco Bentivogli ha ripercorso in maniera precisa 12 anni di gravi indecisioni e colossali errori pubblici nella risposta alla domanda: che cosa fare dell’Ilva commissariata dalla giustizia? Da anni era ormai  chiaro che Mittal aveva avviato il disimpegno, e ora il governo entro pochi giorni deve fare due cose: trattare la buonuscita di Mittal per una cifra sperabilmente non troppo superiore ai 200 milioni, e su questa base evitare una nuova amministrazione commissariale che creerebbe dure reazioni tra i lavoratori attivi e cassintegrati, tra tutti i fornitori che l’azienda non è il grado di pagare, e genererebbe un tale incertezza da impedirebbe qualunque trattativa con qualunque privato per dare un futuro agli impianti. Fare ciò implica stanziare capitale pubblico per acquisire l’intera gestione aziendale, pagare debiti e forniture e riprendere le decarbonizzazioni. Circa un miliardo per cominciare, per poi attingere a un paio di miliardi di fondi europei già previsti. Ma la domanda centrale resta: per fare che cosa, dell’ex Ilva?

 

Chi qui scrive appartiene alla minoranza che crede nella necessità che l’Italia mantenga una sua capacità di acciaio primario, realizzato da minerale e carbone. Come tutte le maggiori manifatture europee, Germania e Francia. Ma gli anni persi lo hanno reso più arduo. Già oggi il costo dell’energia in Europa è in media quasi quattro volte quello che paga la manifattura statunitense, ma Germania e Francia garantiscono nei prossimi anni agli energivori tariffe iperagevolate rispetto a quelle italiane, chi perché è meno iperindebitato di noi chi perché ha reattori nucleari. Noi non abbiamo niente di tutto questo. Secondo: credere nell’acciaio primario significa costruire in Europa una tosta alleanza contro le regole prodotte della Commissione uscente, per le quali da questo gennaio inizia un processo che entro fine 2028 chiederà alle acciaierie a ciclo integrale di pagare per le loro emissioni di CO2 fino all’equivalente di cento milioni di euro per tonnellata di CO2 (tornare a Taranto da meno di 3 mln di tonnellate di prodotto annuo a 5 mln  comporterebbe un sovraccosto di un miliardo l’anno). Queste regole vanno cancellate, significano che l’Europa intera esce dalla produzione di acciaio primario, si limita ai forni elettrici e diventa per il resto schiava dell’import dall’Asia. La battaglia va fatta, non ci si può rassegnare a che Germania e Franci ipersussidino con aiuti di Stato per miliardi i loro altoforni (Mittal ha  firmato a Parigi un accordo con oltre 2 miliardi di euro di aiuti di Stato per uno dei suoi maggiori impianti europei). E bisogna infine tener d’occhio quanto avvenuto all’acciaio europeo negli ultimi anni. Il consumo di acciaio in Ue aveva raggiunto i 153 milioni di tonnellate nel 2018, scesi nel 2020 a 129 milioni, risalite a 150 nel 2021, e da allora riscese a 140 nel 2022 e a poco meno nel 2023. La previsione 2024 di Eurofer è di poco superiore: la frenata europea è destinata a protrarsi. Ciò ha comportato un calo dell’import europeo di acciaio da paesi terzi, che dai 30 mln di tonnellate di prodotti finiti nel 2021 è sceso a meno di 10  nel 2023  e anche un calo dell’export: nel 2012 la UE esportava 28 mln di tonnellate di prodotti finiti, al terzo trimestre 2023 l’export era in  ripresa verso i 5. Con i nostri costi è  impossibile pensare che l’Ilva esporti, bisogna puntare alla soddisfazione della domanda interna (5-7 milioni di tonnellate da altoforno entro 4 anni). Sempre che tutto vada bene e ci siano manager di settore con  esperienza, e non bramini di partito.

Di più su questi argomenti: