Ricordate la Comunità europea del carbone e dell'acciaio? La guerra ci spinge a cinquant'anni fa

Stefano Cingolani

L’autonomia energetica potrebbe essere il prossimo passo necessario per garantire una pace duratura in Europa, nello spirito di Monnet e Schuman

Nel 1950 Jean Monnet era convinto che un’altra guerra in Europa fosse inevitabile. In Corea gli Stati Uniti si confrontavano con l’Unione sovietica e la Cina, le due potenze comuniste, ma nel Vecchio continente erano tornate a risuonare grida minacciose. La sorte della Rhur e della Saar aveva riaperto antiche ferite tra la Francia e la Germania o meglio la Repubblica federale tedesca, evocando i ricordi del 1870, del 1914, del 1940. Altro che magistra vitae, la storia stava per ripetersi. L’alto funzionario francese aveva diviso la sua vita tra l’azienda di famiglia, la Monnet Cognac produttrice del famoso distillato di vino bianco, e il servizio per il suo paese. Già nel 1943, mentre ad Algeri partecipava alla nascita del Comitato di liberazione nazionale guidato da Charles de Gaulle, aveva ammonito che se l’Europa si fosse ricostruita privilegiando gli interessi dei singoli stati nazionali, non ci sarebbe mai stata pace. Dopo la sconfitta di Adolf Hitler, la Francia controllava le due principali regioni tedesche di produzione del carbone e dell’acciaio e ne aveva subordinato il rilancio agli obiettivi del piano quinquennale elaborato proprio da Monnet. 

La Saar, particolarmente ricca di carbone, era un protettorato francese; in realtà “una colonia”, accusava il cancelliere Konrad Adenauer, e le tensioni crescevano a mano a mano che la Rft prendeva  consistenza (nel 1949 era stata approvata anche la costituzione chiamata Legge fondamentale). E’ così che il geniale vigneron diventato politico, diplomatico, tecnocrate, concepisce un progetto visionario: europeizzare il carbone e l’acciaio, sottraendolo alle mire di ogni singolo paese, comprese Francia e Germania. La proposta, adottata da Robert Schuman, diventa il primo nucleo di quella che passo dopo passo, crisi dopo crisi, sarà l’Unione europea; infatti il ministro degli Esteri francese è esplicito fin dall’inizio: la messa in comune della produzione di carbone e acciaio sarà fondamento di una federazione europea e di pace nel continente. 


Nel 1952 Monnet viene nominato presidente dell’Alta autorità che guida la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, il compito è gestire insieme le risorse chiave per la ricostruzione e la crescita industriale, tuttavia è subito chiara la sua portata politica: aprire nelle sovranità nazionali una breccia sufficientemente limitata perché possa essere accettata dai singoli stati, ma sufficientemente profonda da portare gli stati all’unità necessaria per garantire la pace. La Ceca è una istituzione con un’assemblea, una commissione, un consiglio, insomma un’architettura che prefigura quella della successiva Commissione economica europea, la Cee, e poi della Ue. E con una propria capacità di finanziamento sottratta ai bilanci dei singoli paesi membri. Il trattato è scaduto nel 2002 ma oggi, mentre l’Europa dall’Atlantico al Mar Nero deve mettere insieme tutte le risorse per non cedere al ricatto strategico della Russia putiniana, si potrebbe ripartire dalla Ceca, recuperando il suo spirito e per molti versi anche la sua intelaiatura.
 

Davvero viviamo in tempi bui “quando discorrere d’alberi è quasi un delitto perché su troppe stragi comporta silenzio”. Così dobbiamo discorrere di carbone e non solo parlarne, ma utilizzarlo in modo più ampio. Il carbone contro la crisi energetica provocata dalla guerra e dalle sanzioni. L’acciaio per la difesa comune, per uno scudo contro la minaccia che viene dalle steppe orientali. Oggi s’aggiunge anche il grano, perché dall’Ucraina e dalla Russia vengono la maggior parte dei chicchi consumati nel resto d’Europa. Carbone, acciaio, grano, materiali antichi per una guerra moderna combattuta con principi arcaici, quasi tribali.

La Russia aveva concepito già nello scorso decennio di diventare la potenza egemone in Europa non solo nel gas, ma anche nella siderurgia. Il primo obiettivo è riuscito. Il secondo no perché il tentativo di acquisire la Arcelor facendo leva sulla seconda acciaieria italiana, quella di Piombino in mano alla russa Severstal, è fallito con l’intervento degli indiani di Mittal sostenuti dalla finanza anglo-americana. Sono entrate in scena le nuove potenze industriali, il mercato si è diversificato, la filiera si è articolata e specializzata, a questo punto diventa molto difficile il predominio di un solo gruppo o di un solo paese persino nel prodotto di base. Tuttavia l’industria siderurgica assume oggi un valore cruciale che coinvolge la sicurezza collettiva, aspetto che sembrava superato nel mondo piatto della pace perpetua e della globalizzazione. L’acciaio è una lega di ferro e carbonio (al 2 per cento, di più diventa ghisa), dunque ha bisogno di quel materiale nero, polveroso, fumoso, insomma del carbone, roccia sedimentaria formatasi circa trecento milioni di fa dalla lenta combustione di foreste ingoiate dalle acque e dalla terra. Esiste in quattro diverse forme: antracite, bituminoso, lignite e carbone sub-bituminoso, a seconda del livello di carbonio e del calore prodotto dalla combustione. Oltre al carbonio e all’idrogeno, può contenere altri elementi tra cui zolfo, ossigeno e azoto. E’ l’imputato numero uno nel processo collettivo all’inquinamento dell’aria e all’effetto serra, ma torna in auge oggi sotto i colpi dell’armata russa. Perché il modo più immediato per compensare il petrolio e il gas di Mosca è usare altro carbone nelle centrali elettriche e nel riscaldamento urbano. Una scelta nient’affatto scontata, sottoposta a una miriade di veti e resistenze. 
 

Ai seri problemi ambientali, s’accompagna un altro ostacolo forse ancor più difficile da aggirare: il 55 per cento della materia prima importata in Europa viene dalla Russia, principale produttore nel Vecchio continente. Con il secondo maggior giacimento al mondo, sforna circa 170,9 milioni di tonnellate, due terzi dei quali consumati sul mercato interno. La produzione di carbone era scesa dopo la caduta dell’Unione sovietica, ma dal 2008 in poi è risalita leggermente, nonostante sia cresciuta la dipendenza dal gas naturale. Subito dopo arriva il Kazakistan con una produzione di 55,3 milioni di tonnellate, uno dei principali esportatori in Europa: la materia prima è in grandi bacini come Karaganda, Ekibastuz, Turgay e Maikuben. La Polonia è al terzo posto con 55 milioni di tonnellate. I depositi sono principalmente di lignite e carbon fossile nell’Alta Slesia e nell’area attorno a Lublino.
 

Secondo i dati Eurostat, la produzione di carbone è in caduta dal 1990 in poi con un crollo a 56 milioni di tonnellate nel 2020 e un consumo di 144 milioni di tonnellate; certo c’era la pandemia, ma comunque si tratta rispettivamente del’80 per cento e del 63 per cento in meno rispetto a trent’anni prima. S’è assottigliato anche il numero di paesi che lo producono nella Ue, da 13 a soli due: oltre la Polonia (estrae il 96 per cento del carbon fossile) la Repubblica Ceca. La Germania che ha un potenziale produttivo da 170 milioni di tonnellate, vanta un primato storico: lo sfruttamento commerciale è cominciato a metà del XVIII secolo proprio nella Ruhr e ancor oggi resta la principale fonte di elettricità. Lo scorso anno ha rappresentato circa il 32 per cento del mix energetico. Un forte incremento rispetto al 26,4 di un anno prima. La quota per produrre elettricità, spiega l’Ufficio federale di statistica, nel terzo trimestre del 2020 era al 26,4 per cento mentre si attestava al 27,1 nella prima metà del 2021. Il vice cancelliere, il verde Robert Habeck, ha annunciato contro il suo partito l’intenzione di creare riserve strategiche nazionali. 
Anche la Francia ha fatto ricorso al carbone nonostante il 70 per cento dell’elettricità venga fornita dalle centrali atomiche le quali sono arrivate al massimo della loro capacità. Il presidente Emmanuel Macron aveva promesso di fermare gli ultimi impianti a carbone entro il 2022. “Gli stabilimenti di Le Havre e Gardanne sono già stati chiusi e l’impianto di Saint-Avold chiuderà come previsto nella primavera del 2022”, ha detto la ministra della Transizione ecologica, la verde Barbara Pompili. La centrale di Cordemais (Loire-Atlantique) potrebbe continuare a funzionare, nonostante gli impegni del governo, a causa del rischio di tensioni sulla rete fino al 2024, data in cui entrerà in servizio il reattore nucleare di terza generazione plus a Flamanville in Normandia.

 

E in Italia? Le ultime sette centrali a carbone dislocate tra Liguria, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Puglia e Sardegna sono destinate, secondo i piani originari, a essere spente o riconvertite entro il 2025. Cinque fanno capo all’Enel, quella di Monfalcone alla multi-utility italiana A2A, Fiume Santo vicino a Porto Torres è dell’azienda ceca EP. Mario Draghi, nell’informativa urgente alla Camera sulla crisi ucraina ha detto che “per colmare eventuali mancanze nell’immediato potrebbe essere necessaria la riapertura delle centrali a carbone”. L’unico impianto fermo è quello termoelettrico “Eugenio Montale” di La Spezia, con una capacità di 682 MW. Nella centrale “Andrea Palladio” di Fusina (Venezia), da 976 MW, e nella “Federico II” di Brindisi (tra le più grandi d’Europa con 2.640 MW), è stata avviata una chiusura parziale di alcuni gruppi. Nel Lazio si trova la  “Torrevaldaliga Nord”, spinta da un impianto termoelettrico alimentato a carbone e con una capacità di 1.980 MW, più piccole in Sardegna la “Grazia Deledda” di Portovesme (480 MW) e “Fiume Santo” (circa 600 MW). Il governo intende massimizzare quattro centrali (Fusina, Torrevaldaliga, Monfalcone) oggi sotto utilizzate. Portando la loro capacità al 100 per cento, si otterrebbe un risparmio, per il mancato uso del gas, di circa 3,5 miliardi di metri cubi annui. Ma l’operazione sarà comunque a tempo: non più di due anni e con verifiche semestrali.
 

L’agenzia d’informazione Bloomberg spiega che un po’ tutti i produttori europei di elettricità si stanno accaparrando carichi di carbone a causa della carenza di gas naturale. I prezzi salgono, hanno toccato i 200 dollari la tonnellata, la cifra più alta dal 2008. Un inverno freddo e la mancanza di vento nel nord Europa hanno aumentato la domanda di metano e ridotto le scorte, poi è arrivata l’invasione dell’Ucraina. Anche i mercanti di carbone stanno registrando rigidità secondo Marco Saalfrank, capo del merchant trading dell’Europa continentale alla Axpo Solutions AG. Le forniture mondiali sono diminuite in quanto i maggiori produttori, la Colombia e l’Indonesia, hanno lottato contro le forti piogge, mentre alcune miniere altrove hanno chiuso a causa della pandemia. Tuttavia la domanda fa salire anche i profitti e spinge le imprese a investire (i nuovi progetti minerari si erano fermati) e ad aumentare la produzione. 

Gli ambientalisti sono sul piede di guerra. La combustione nelle industrie emette grandi dosi di carbonio e contribuisce in modo rilevante al riscaldamento globale, alle piogge acide e ai cambiamenti climatici. E poi ci sono gli effetti delle esalazioni su chi vive non lontano dai bacini carboniferi. Per non parlare dei minatori. Le loro condizioni di lavoro non sono più quelle terribili che hanno alimentato epopee letterarie, epiche lotte sociali e tragedie collettive. Resta nel ricordo il lutto per il disastro di Marcinelle in Belgio nel 1956: un incendio uccise 262 operai, 136 immigrati italiani. Il terribile grisou, la miscela di gas che si sprigiona spontaneamente, è la dannazione delle miniere. Oggi si scava con le macchine, non più con mani e picconi, ma le condizioni di lavoro sono comunque durissime. Eppure la certezza di chiudere un’era culminata con la rivoluzione industriale viene meno, e anche la miniera può sembrare un giardino di fronte all’acciaieria Azovstal. 
 

L’autonomia energetica potrebbe essere il prossimo passo necessario per garantire una pace duratura in Europa, nello spirito di Monnet e Schuman. Non è una petizione di principio; e di quel trattato durato cinquant’anni, firmato a Parigi il 18 aprile 1951 da Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, non va recuperato solo spirito. La Ceca prevedeva un’organizzazione dei regimi di produzione e distribuzione basata su un sistema istituzionale che ne garantiva la gestione. Nella fase iniziale ha consentito uno sviluppo equilibrato delle risorse. Durante la profonda crisi siderurgica negli anni 70 e 80, ha elaborato una risposta articolata che ha consentito di procedere alle ristrutturazioni e alle riconversioni necessarie, come il contestatissimo ma efficace piano Davignon. La portata innovatrice della Ceca è stata politica e anche fiscale. L’indipendenza dagli stati membri dipendeva dall’autonomia finanziaria basata sulla capacità dell’Alta Autorità (l’organo oggi corrispondente alla Commissione europea) di procurarsi i fondi necessari con prelievi sulla produzione e contraendo prestiti sul mercato solo per finanziare le aziende. A differenza di quanto accade oggi nell’Unione europea, i prelievi non passavano per i bilanci statali, bensì erano versati direttamente dalle imprese su conti aperti a nome dell’autorità. La Ceca era dotata di una tesoreria centralizzata e disponeva degli strumenti necessari per ottenere il versamento dei prelievi nel caso di mancato pagamento, con maggiorazioni fino al 5 per cento per il ritardo. Le modalità di applicazione e riscossione erano decise dall’autorità, e il limite dell’1 per cento poteva essere superato dietro autorizzazione del consiglio che decideva a maggioranza dei 2/3 (non all’unanimità). Il trattato dava vita, dunque, a vere e proprie imposte europee, sia pur in un settore ben delimitato. Capacità fiscale, superamento dell’unanimità, gestione comune delle crisi con strumenti propri senza passare per le forche caudine e i poteri di veto alla Orbán, è in sostanza quel che ha proposto Mario Draghi all’Europarlamento. Ma un’Alta autorità energetica dell’Unione che coinvolga le imprese, dal gas al carbone, con sostegni alla produzione, diversificazione delle fonti, acquisti e stoccaggi in comune, autonomia finanziaria, coordinamento delle scelte industriali, è qualcosa di molto più efficace che una politica mercanteggiata ogni anno tra i singoli governi, e sarebbe la migliore erede della Ceca.

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