le prospettive

Unicredit non paga la tassa sugli extraprofitti e indica una tendenza

Mariarosaria Marchesano

L'istituto di credito guidato da Andrea Orcel ha deciso di destinare a riserva 1,1 miliardi di euro, anziché pagare la tassa sugli extraprofitti. Anche altre banche potrebbero scegliere il rafforzamento patrimoniale, decidendo così di distribuire meno utili ai soci

La scelta di Unicredit di non pagare allo stato la tassa sugli extraprofitti, ma di aumentare le riserve di bilancio fa intravedere un possibile esito di una norma molto discussa: rendere più forti le banche invece di aumentare il gettito fiscale. Del resto il ministro Giancarlo Giorgetti dice che è questo l’obiettivo della norma, non fare cassa (come si diceva inizialmente). Non esattamente un favore ai banchieri, che potranno distribuire meno dividendi agli azionisti, ma un contributo alla stabilità del sistema finanziario (sarà contenta la vigilanza europea al cui vertice sta per salire la vice presidente della Bundesbank, Claudia Buch, al posto di Andrea Enria). 

Non è, però, del tutto scontato che gli altri istituti seguiranno l’esempio di Unicredit che, sotto la guida di Andrea Orcel, macina 6,7 miliardi di utili nei primi nove mesi del 2023 e  accelera la campagna di espansione all’estero (come testimonia l’operazione Alpha Bank in Romania e in Grecia), al punto da far osservare al quotidiano francese Les Echos che la seconda banca italiana si prepara “a costruire un piccolo impero in Europa centrale”. Proprio la rilevante presenza fuori dai confini nazionali di Piazza Gae Aulenti potrebbe aver incoraggiato la decisione di destinare a riserva 1,1 miliardi di euro, somma calcolata sulla base del perimetro italiano del business e che già ingloba il moltiplicatore previsto dalla normativa per evitare il pagamento.

 

L’ultima versione della legge prevede, infatti, che le banche, al posto del versamento della tassa, possano accantonare, in sede di approvazione del bilancio, un importo pari ad almeno 2,5 volte l’imposta. In altre parole, se un istituto decide di versare la tassa, questa viene calcolata in base ad alcuni indicatori che tengono conto del maggior valore del margine d’interesse ottenuto nell’anno 2022. Se, invece, opta per la strada della riserva, come ha fatto Unicredit, la somma viene moltiplicata per 2,5. In nessun caso la somma corrispondente all’imposta può essere suddivisa tra i soci a patto di accollarsi una penale. 

 

Tutto dipenderà dalle scelte dei singoli istituti di credito anche sulla base della distribuzione delle attività per aree geografiche: nel computo degli utili tassabili rientrano, infatti, quelli realizzati in Italia o da branche italiane all’estero ma non quelli realizzati attraverso banche straniere partecipate o controllate che pagano le tasse nei paesi di appartenenza. Difficile fare previsioni anche perché diverse banche italiane – Intesa Sanpaolo, Banco Bpm e Montepaschi – presenteranno i dati trimestrali entro la prima decade di novembre e solo in quella sede si pronunceranno sul pagamento o meno della tassa sugli “extraprofitti”. Nel complesso, però, l’orientamento prevalente, almeno delle banche quotate che sono sottoposte a regole di vigilanza più stringenti, dovrebbe essere quello di prediligere il rafforzamento patrimoniale anche se vuol dire distribuire meno utili ai soci.

 

Persino Montepaschi (controllata al 64 per cento dal Mef) pare orientata verso questa soluzione, definita come “la più logica” dall’ad Luigi Lovaglio in una recente intervista a Class Cnbc: “La possibilità che ora viene offerta di destinare a riserva non distribuibile 2,5 volte l’importo dell’imposta, mi sembra un’ottima occasione per rafforzare la posizione di capitale delle banche”. La decisione, ovviamente, spetta al cda che si riunisce nei prossimi giorni, ma l’aria che tira nell’istituto senese è questa, salvo sorprese dell’ultim’ora o interventi dell’azionista Mef per dare “il buon esempio”. 

 

L’impressione, però, è che il governo si sia messo un po’ l’anima in pace sul fatto che l’unico risultato del provvedimento che, nelle intenzioni inziali era destinato a togliere ai ricchi per dare ai poveri (“una misura di equità sociale” l’aveva definita il ministro Matteo Salvini), sarà quello di aumentare la solidità del sistema bancario, come suggerito dalla Bce, e che lo stato resterà a bocca asciutta e senza alcun “tesoretto” su cui contare. 

Per la verità, c’è anche chi dubita che ci sarà un rafforzamento della struttura patrimoniale delle banche che non sia già stato deciso a monte dal management prima e indipendentemente dalla legge. E’ quello che sostiene, dati alla mano, Rony Hamaui, professore di economia all’Università Cattolica, in un recente articolo pubblicato su lavoce.info, in cui alla fine commenta che l’unica cosa che resta della tassa sugli extra profitti sono le infinite discussioni e il danno reputazionale dell’Italia. 

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