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l'analisi

Rapporto Inps e lavoro povero, dati trucati o letti sbadatamente?

Marco Leonardi e Bruno Anastasia

Al di là della battaglia politica sui numeri, lo studio mette in evidenza un elemento fondamentale, non ancora abbastanza compreso: il problema del lavoro povero è in gran parte un problema di ore lavorate e di continuità di impiego. Questo significa che un salario minimo è inutile? Niente affatto, ma dipende anche dal tipo di lavoratori

La pubblicazione dell’ultimo rapporto Inps ha provocato una polemica sull’uso politico dei dati che va chiarita per non far nascere dubbi inutili e dannosi sulla struttura tecnica dell’Inps che, ricordiamo, produce stime per gran parte delle norme di ogni legge di Bilancio, non solo per quelle che riguardano il welfare e le pensioni. E’ chiaro che la politica indica le domande su cui i ricercatori devono lavorare, ma è anche chiaro che le risposte sono fondate su analisi rigorose con metodiche esplicitate. Poi  la politica può utilizzare i dati come crede (e come è inevitabile che sia). Ma per chi vuole leggerli correttamente cosa dicono?

 

Nel XX° Rapporto presentato da Tridico a ottobre 2020 si stimava un’incidenza dei lavoratori sotto la soglia di 9 euro l’ora pari al 26 per cento tra i dipendenti di industria e terziario (esclusi  domestici e agricoltura). In valori assoluti 3,5 milioni. Nel 2023 la commissario Gelera in audizione alla Camera aggiornava quell’esercizio al 2022, la quota risultava scesa al 22,7 per cento e il valore assoluto risultava pari a 3,3 milioni. La soglia di 9 euro, in tutti questi esercizi, era assunta come data, derivante dal dibattito politico dell’epoca, ma erano considerate anche le soglie di 8 e 8,5 euro. 

L’ultimo rapporto Inps non ripropone lo stesso esercizio ma risponde a una domanda diversa: quali e quanti sono i dipendenti di industria e terziario che pur lavorando full time e full year sono poveri, vale a dire con un salario al di sotto del 60 per cento della mediana? Ovviamente se ci sono X lavoratori che pur lavorando full time full year sono poveri, figurarsi quelli che non lavorano full time full year. L’analisi presentata arricchisce la conoscenza pubblicamente disponibile in materia di retribuzioni (vedi l’allegato statistico con, per la prima volta, dati analitici sulla distribuzione dei salari per Ccnl) e si interroga su quale sia la possibile quantificazione nonché l’origine e le caratteristiche (contratti “pirata”? Tipologie contrattuali? Addensamenti territoriali?) dei salari più bassi, indecorosi, al di sotto del  60 per cento della mediana, inferiori quindi a 48,3 euro per i full time (1.116 euro netti mensili) e 24,9 euro per i part time (588 euro mensili), valori che corrispondono a un salario orario vicino a 7,5 euro. Si tratta quindi di un’analisi dei dipendenti con i salari più bassi, che a ottobre 2022 risultavano poco meno di 900 mila, pari al 6,3 per cento del totale. Perché la scelta di concentrarsi sui full time full year? Perché appunto è molto grave se pur lavorando a tempo pieno non riesci a raccogliere un reddito sufficiente. Il rapporto mette in evidenza un elemento fondamentale, non ancora abbastanza compreso: il problema del lavoro povero (così definito) è in gran parte un problema di ore lavorate e di continuità di impiego.

Questo significa che un salario minimo orario è inutile? Niente affatto, è utile per quanti hanno un salario orario basso e, a maggior ragione, è utile per chi ha anche problemi di ore lavorate (part time, stagionali, intermittenti etc.). In tutto il mondo questa è la platea dei lavoratori interessati, che si giovano del valore legale del salario minimo.  

 

Ma se la soglia non fosse il 60 per cento della mediana ma fosse pari a 9 euro, quali risultati si otterrebbero nel rapporto presentato ieri? Il rapporto non evidenzia nessun dato in contraddizione con quanto emerso in precedenza da Inps come da Istat: sotto la soglia dei 9 euro, a ottobre 2022, si trovavano milioni di dipendenti. E’ sufficiente consultare la tab. 1.29 a pag. 95 per verificare che per i dipendenti full time (quasi 10 milioni), la retribuzione giornaliera per il decimo percentile è pari a 56 euro e per il ventesimo percentile è pari a 63 euro. Sapendo che i 9 euro corrispondono a 60 euro al giorno è evidente che solo tra i full time non siamo lontani dai due milioni di dipendenti con retribuzioni effettive al di sotto di tale soglia. 

Insomma i rapporti Inps sia del 2020 (presidente Tridico) che del 2023 (commissario Gelera) utilizzano la stessa base dati per rispondere a domande di ricerca diverse ma arrivano, se li guardiamo dal punto di vista dell’introduzione del salario minimo, a conclusioni del tutto coerenti e concordanti. Chi scrive è favorevole all’introduzione del salario minimo per legge. Ma entrambi i rapporti citati – come pure le elaborazioni Istat – attestano che sotto la soglia di 9 euro ci sono milioni di rapporti di lavoro e quindi si tratta di una soglia a oggi elevata, che configura un intervento profondo sulla distribuzione dei salari (e nell’analisi non ci sono neanche agricoltura e lavoro domestico). E’ ben per questo che tutti i paesi che hanno introdotto il salario minimo hanno dato incarico a commissioni tecniche di stabilire i parametri di riferimento, anche perché i dati non parlano da soli e in genere non parlano una lingua immediatamente comprensibile: occorre maneggiarli con cura per ricavarne indicazioni utili e praticabili.
 

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