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Il romanzo grigio dell'autunno

Il cabaret dell'estate è già finito: bambole non c'è na Lira

Stefano Cingolani

Sparisce il solleone, se ne vanno turisti e granchi blu, cala il sipario su protagonisti e comprimari della stagione. Dopo il vaudeville, settembre è tempo di conti, e quelli pubblici non tornano 

Settembre andiamo, è tempo di migrare. Se ne va anche Open to Meraviglia, la figurina di Daniela Garnero coniugata Santanchè, diventata ben presto una figuraccia da mezzo milione di euro. Se ne vanno i granchi blu, chi torna in America, chi finisce nel caciucco. Sparisce il solleone, arrivano Betty e Poppea. S’allontanano i turisti tra le pantegane del Colosseo. Ma ben altre migrazioni sfidano questo settembre che s’annuncia oscuro, tra voltafaccia africani e lamentele europee. Settembre è tempo di conti, quelli pubblici che non tornano, ora meno che mai; la questua non è mai finita, ma le casse si sono svuotate. Riaprono le scuole, è l’eterno ritorno del sempre uguale. Ricomincia la stagione teatrale, anche se le recite non si sono mai fermate. L’estate più rovente del secolo (o forse no) ha portato alla ribalta vecchi e nuovi protagonisti, tra rumori fuori scena e primattori in cerca di copioni. Ce ne sono alcuni degni dei più brillanti vaudeville e altri che introducono a veri e propri drammi della solitudine. Guido Crosetto rinnegato davanti al generale La Qualunque, Antonio Tajani alla ricerca del partito perduto, Carlo Nordio che sfoglia le pagine della sua riforma come petali di margherita, Maurizio Leo che non può ridurre le tasse e, solo ancor più di tutti gli altri, Giancarlo Giorgetti, le cui parole suonano come melanconiche campane del vespro. Peccato perché la calda estate non è stata avara di risate. 


Leccornia blu. Uno degli sketch più esilaranti l’ha interpretato Luca Zaia, il quale ha esibito in tv il crostaceo killer come fece Boris Johnson con le aringhe quando voleva difenderle dalla “dittatura europea”, o come l’indimenticabile cetriolo di Matteo Salvini che la Ue insisteva a tutti i costi di raddrizzare, e invece lui, al pari del legno storto kantiano, rifiutava ogni maneggio. Il vorace mangiatore di cozze (anche pelose), vongole e telline provoca “un cataclisma” secondo il presidente della regione Veneto, che ha ottenuto dal governo ben 2,9 milioni di euro, anche se non bastano (naturalmente). Intanto i supermercati Despar lo vendono ai clienti in cinque regioni del nord, “considerando anche le alte qualità alimentari del prodotto e la sua versatilità culinaria”. A Napoli va a ruba a 3,50 euro al chilo, altrove è partita già la bolla: cinque euro in laguna, persino 13 altrove. Vengono spediti anche in America dove è una vera leccornia. Nella zuppa, grigliato, saltato in padella, da provare sulle linguine al posto dell’astice o con spaghetti e bottarga. Non è made in Italy? Ma ci si possono fare bei soldini e la vigile Coldiretti guida la carica degli chef: cuciniamolo in ogni modo. 


Di cifre e diete. L’associazione, già pilastro della Democrazia cristiana, oggi è una delle lobby più agguerrite. Non molla un colpo, ha una cifra per ogni cosa. Cifra tonda? Cifra dispari perché dà un tono di maggior precisione. Il solleone arroventa e in un attimo arriva la stima delle perdite. Arriva Poppea, e dopo il primo acquazzone sa già i danni della tempesta. Ha sempre avuto una conoscenza capillare del territorio, zolla per zolla, ma adesso dovrebbe essersi dotata di super calcolatori. Segue il conto della spesa da inviare al ministero, anzi al ministro in persona, il fido Lollo, alias Francesco Lollobrigida, sì, il signor cognato che, complici i sogni di mezza estate, si è lanciato in una nuova teoria economico-dietetica: i poveri mangiano meglio e vivono di più, perché comprano cibo sano dai piccoli coltivatori (diretti o indiretti non importa in questo caso). Gli ha fatto eco Bruno Vespa su X: guardate quegli obesi miliardari americani che muoiono molto prima dei poveri smilzi italiani. Certo, guardiamo Mark Zuckerberg maestro di arti marziali, o lo stesso Bill Gates che non è più l’occhialuto ragazzo di un tempo. Quanto a longevità miliardaria, che dire di Warren Buffett (93 anni) o dell’altro novantenne arzillissimo, Rupert Murdoch, il quale, in quanto australiano diventato americano, deve aver trangugiato le peggiori pietanze dell’occidente?


Fratelli egemonici. Finisce in farsa anche l’egemonia culturale così cara al ministro Gennaro Sangiuliano. Alla disperata ricerca di egemonisti d.o.c., s’è imbattuto in Marco Castoldi, cantante milanese apprezzato in particolare per la tenuta del gel con il quale sorregge un improbabile ciuffo e per le foto hot con l’allora compagna Asia Argento (degna di Gustave Courbet quella in cui con la mano protegge la di lei origine del mondo). Si fa chiamare Morgan come il famoso pirata, con un ego degno di un otre, su di giri più che mai, s’è esibito a Selinunte in un refrain di insulti volgari prima ancora che omofobi. Ha ricevuto un altolà da Marracash e, in attesa che scenda in campo Fedez (niente meno), è stato difeso da Vittorio Sgarbi, vice ministro fino a prova contraria. Lo scontro di civiltà è cominciato. E Sangiuliano attonito non può non sentirsi come l’apprendista stregone.


Solitudine dei numeri uno. Ben più tristi e solitari s’aggirano gli uomini ai quali era stata affidata l’egemonia politica. Prendiamo Crosetto che risponde da uomo di governo al generale Roberto Vannacci, anche lui egemonista in fieri con il libro autopubblicato, dizionario dei luoghi comuni destrorsi. Ebbene, sull’uomo senza il quale Fratelli d’Italia probabilmente non esisterebbe, è calato il gelido silenzio dei colleghi. Fratelli coltelli? Carlo Nordio, punta di diamante della grande riforma garantista, ha dovuto raffreddare i suoi eroici furori. Se ne parlerà l’anno prossimo. Forse. Contro la fortezza giudiziaria si sono infranti principi del foro e insigni giuristi; l’ex pm veneziano conosce bene il potere di mettere in scacco chiunque, da destra o da sinistra, voglia riequilibrare i poteri dello stato liberal-democratico. Sembra un lontano richiamo della foresta quello di Antonio Tajani ai mancati eredi politici di Silvio Berlusconi. Come il biblico Daniele circondato da leoni, gattopardi, iene e sciacalli, resta fermo al centro dell’arena. Si rende conto che già stanno facendo i conti di qui alle elezioni europee del prossimo anno: un pezzo a me, un pezzo a te, e a lui le briciole? E’ apprezzabile la fattiva rassegnazione del plenipotenziario fiscale Maurizio Leo. La riduzione delle aliquote Irpef costerà più di 4 miliardi. E almeno 10 miliardi servono per il cuneo fiscale.

L’inflazione ha un impatto perverso: i prezzi salgono e gonfiano i redditi lordi i quali fanno scattare le aliquote, i cittadini pagano, lo stato incassa di più, ma non abbastanza per abbattere le maggiori imposte. I sindacati chiedono un intervento per bloccare questa scala mobile fiscale insieme al taglio dei contributi: fiscal drag e cuneo farebbero saltare ogni compatibilità finanziaria. Soli restano i servitori dello stato che cercano una logica nelle tante follie. Tra questi vogliamo citare Ernesto Maria Ruffini. Per difendere “milioni di italiani ostaggio da troppi anni dell’Agenzia delle entrate” è sceso in campo Salvini. Lui che cerca in ogni modo di fare il controcanto a Giorgia Meloni si è sentito spiazzato quando la capo del governo ha parlato di “pizzo di stato” e non ha voluto essere da meno. Ruffini ha risposto per le rime: “Deve essere chiaro, il contrasto all’evasione non è volontà di perseguitare qualcuno. L’Agenzia è una amministrazione dello stato, non un’entità belligerante”. Hombre vertical o, meglio, vero civil servant.


Le rinunce del Tesoro. In mezzo al circo, assordato dalla cacofonia dei tromboni, è finito Giancarlo Giorgetti. Sul tavolo del Tesoro s’accatastano le liste della spesa, le richieste legittime e no, le suppliche non più imperiali, ma presidenziali. Bisogna tutelare le famiglie in difficoltà, sostenere quelle che fanno più figli, compensare il caro energia, pagare le pensioni anticipate per “seppellire la Fornero” (la riforma sia chiaro), ridurre gli oneri sociali, rimborsare la tassa da inflazione e via via spendendo. Si parla di una legge di Bilancio che stanzi almeno 35 miliardi di euro e nel frattempo si scopre un buco da 20 miliardi nelle entrate fiscali. Insomma, niente trippa per gatti, “andranno fatte rinunce” ripete Cassandra Giorgetti, ma “Nun ce vonno sta”, come si dice dalle parti di Chigi. 


Lo stato ospedale. Il divario tra la politica degli annunci e la politica del fare si allarga mese dopo mese. “Assumiamo il controllo strategico della rete fissa”, è il napoleonico proclama di Giorgia Meloni. Poi tocca a Giorgetti spiegare che il governo prende una quota di minoranza (il 20 per cento) e comunque non intende spendere più di 2,6 miliardi di euro, tanto quanto pensa di incassare dalla imposta sui superprofitti delle banche, che in realtà non tassa i profitti, tanto meno i super, ma i ricavi e assomiglia a una patrimonialina. Anche qui è toccato al ministro dell’Economia gettare acqua sul fuoco populista e riportare il provvedimento a più miti consigli: verrà colpito non più dello 0,1 per cento degli attivi bancari, così da non mettere a rischio il patrimonio delle banche che nei prossimi mesi prevedono di dover affrontare seri problemi perché il ciclo economico è cambiato e rischia di invertirsi del tutto. Ma sui conti torniamo fra poco, perché capire come funzionerà il “controllo  strategico” è molto complicato e ne spunta una al giorno, l’ultima è prendere tutta Sparkle (cavi sottomarini), valutata 1,25 miliardi.

Che cosa farà il fondo americano, riscuoterà la maggior quota di cedole per l’affitto della rete agli operatori? Solo un quinto del ricavato andrà al Tesoro che, per ripagarsi dell’investimento, dovrà attendere un certo numero di anni. E si stanno facendo i conti senza l’oste francese: la Vivendi di Vincent Bolloré che è ancora il primo azionista di Tim con il 23,75 per cento valuta la rete 31 miliardi, non i 27 dell’accordo governo-KKR (17 dei quali sono debiti). Un rialzo per trattare, oppure prepara lo scontro aperto in assemblea? Nel frattempo, bisogna pensare all’altra società della rete, Open Fiber, con quattro e rotti miliardi di debiti che saliranno a sei vista anche la caduta dei ricavi. Più che controllo strategico siamo dentro a un complesso e per ora confuso salvataggio. Più che lo stato industriale, innovatore, imprenditore che dir si voglia, torna (perché in realtà non se n’è mai andato) lo stato ospedale. E torna proprio mentre le sue risorse si stanno riducendo. Da una parte si teorizza e si pratica l’espansione della mano pubblica, dall’altra risputano le privatizzazioni. In campo c’è il Monte dei Paschi di Siena che andrà venduto l’anno prossimo in base agli accordi raggiunti a Bruxelles. Tajani propone di aggiungere quote dei porti e ospedali, ma Fratelli d’Italia e Lega lo ha bloccato. Zig e zag per rastrellare qualche euro in più.


Le trombe del giudizio. Arriviamo, così, al cuore della intera faccenda. Come dicevano gli impresari del varietà alle loro soubrette: “Bambole, non c’è più una lira”. Per nove mesi hanno suonato le trombe della vittoria, attenti che non squillino adesso le trombe del giudizio. L’Italia ha vissuto un boom del tutto ragguardevole, tuttavia nell’ultimo trimestre il prodotto lordo è diminuito di quattro decimali, meno 0,4 per cento. Aspettiamo i dati estivi, ma la frenata è evidente. Lo dice l’Istat, non la Cgia di Mestre che, forse ancora sotto i colpi di Caronte, ha tirato fuori che il Mezzogiorno d’Italia cresce quattro volte più della Francia e della Germania messe insieme. Qualcuno ha ironizzato sulla statistica trilussiana, ma nell’associazione sindacale di artigiani e piccoli imprenditori veneziani non ci sono bambini delle elementari, forse volevano sfatare il luogo comune di un sud che affonda nella palude del sottosviluppo, intendevano opporsi al solito piagnisteo. D’altra parte ammettono che in ogni caso il pil del Mezzogiorno continuerà a muoversi con un passo più lento rispetto al centro e al nord Italia. Forse si sono spiegati male, forse è colpa di noi giornalisti, o forse c’è un po’ di captatio benevolentiae. Fatto sta che si sono aggiunti al coro di chi canta il vecchio ritornello senza accorgersi che la musica è cambiata. Oh sì, e come è cambiata. La Germania è bloccata, la Cina arranca. Possiamo anche gioirne perché siamo stufi delle  reprimende tedesche e perché i cinesi sono avversari strategici se non veri e propri nemici, ma a chi lo piazziamo il made in Italy, a chi diamo i pezzi per fare le automobili e così via via esportando? 


Il partito del grand tour. Ci salverà il turismo, il nostro oro nero come si continua a ripetere. Davvero? Finora è stata una delusione, ai primi di agosto s’è visto un calo del 30 per cento. Si sono aggiunte nuove mete dall’Albania alla Tunisia. Finora il Bel Paese era solo quarto in Europa dopo Francia, Spagna, Grecia. Tra i paesi più visitati al mondo la Francia è imbattibile, l’Italia segue Spagna, Stati Uniti e Cina (ma qui i dati risalgono a prima della pandemia). Le cifre vere sono noiose, quelle immaginarie sono fruttuose. Insieme al “partito dei contadini”, il “partito del grand tour” ha una capillarità, una forza di pressione e una influenza davvero fuor del comune. Si fa a gara a prendere nei comuni e nelle regioni la poltrona di assessore al Turismo. E Fratelli d’Italia batte tutti sotto la guida di Daniela già Santanché e Francesco Lollobrigida: una legione nazionale dalla Liguria alla Lombardia, dalle Marche alla Sicilia dove spicca Manlio Messina. Da assessore al Turismo della giunta Musumeci, si è inventato SeeSicily, un mega progetto di propaganda costato 70 milioni. Allegria. Lui ha scalato i vertici del partito ed è diventato vice presidente del gruppo FdI alla Camera. Ma sul colossale spreco si sono mobilitate tre procure: quella penale, quella della Corte dei Conti e quella europea. 


Un piano poco Fitto. Per rilanciare il turismo bisogna investire in infrastrutture e servizi, non in specchietti per le allodole. Il Pnrr punta su una forte digitalizzazione, necessaria, ma non sufficiente. Ci sono quasi tre miliardi di euro, gli unici assegnati sono quelli per i borghi con ben 228 progetti. Il piano, del resto, è in forte ritardo ovunque, peggio di tutti nella transizione ecologica. Sono in pericolo anche il rinnovo del parco ferroviario e i nuovi studi di Cinecittà. Il ministro Raffaele Fitto, plenipotenziario per il Pnrr, lavora alla revisione promessa. La terza rata di 18,5 miliardi di euro dovrebbe arrivare entro settembre, il governo non ha chiesto la quarta rata: non mancano i soldi (finora sono entrati 67 miliardi), mancano i progetti esecutivi. E’ una delle priorità del governo che per la prossima legge di Bilancio punta sul taglio al cuneo fiscale, sostegni alle famiglie numerose e ai redditi più bassi, la sanità per la quale il Pnrr stanzia davvero troppo poco. E’ ancora presto per dare i numeri, non per definire le priorità e qui c’è ancora nebbia fitta.


Mal d’Africa. Abbiamo lasciato per ultima l’emergenza numero uno, non perché vogliamo trascurarla, ma, al contrario, perché ci sembra la più chiara e drammatica rappresentazione del fossato tra annunci e realtà. Da Lampedusa a Trieste è tutto un allarme, mentre la strategia africana del governo non funziona. Gli sbarchi stanno raggiungendo il boom del 2016 (ne arrivarono 181 mila). L’accordo con il presidente tunisino Kaïs Saïed (105 milioni dalla Ue per “governare” i flussi migratori) non ha fermato i barchini (hanno portato oltre 30 mila persone), mentre arriva lo schiaffone dalla Libia che rifiuta persino il nuovo ambasciatore italiano. Salvini rilancia la sua politica dei muri, non partecipa alla “cabina di regia” e sfida: vedremo loro cosa saranno capaci di fare. Il ministro dell’interno, Matteo Piantedosi, salviniano doc che aveva esordito tuonando contro “il popolo dei rave”, ormai viene chiamato prefetto di gomma. Se l’Africa non mantiene le promesse che dire dell’Europa? Non c’è una politica migratoria, ma il paradosso per Giorgia è che a impuntarsi sono i governi sovranisti di Polonia e Ungheria.

Patti chiari e lati oscuri. Ce lo impone l’Europa è sempre stato il grande alibi di chi governa sia a sinistra sia a destra, sia pur con intenti e significati opposti. Adesso anche qui siamo a una strategica resa dei conti. Con la pandemia sono state sospese le vecchie regole: un tetto pari al 3 percento del pil per il deficit pubblico e del 60 per cento per il debito. C’è un’ampia consapevolezza che non abbiano funzionato, anzi hanno avuto una funzione pro ciclica intrinseca, lo ha ricordato Mario Draghi l’11 luglio scorso a Cambridge (Massachusetts): “Ogni volta che un paese cresceva rapidamente avrebbe visto entrate inaspettate che avrebbero fatto sembrare il tetto del deficit allentato, portando a sua volta a impegni di spesa crescenti e deficit più elevati. Ma se il ciclo avesse avuto un cambiamento brusco, quelle entrate sarebbero svanite mentre gli impegni sarebbero rimasti riducendo rapidamente lo spazio fiscale”. Il patto non ha evitato la crisi dei debiti sovrani nel 2010, né ha garantito la stabilità finanziaria, il compito è toccato alla Bce con la svolta del 2012, quanto alla crescita è stata favorita anch’essa da un costo del denaro sotto zero e un massiccio acquisto di titoli di stato: un quarto del debito italiano, 685 miliardi di euro ai quali vanno aggiunti i 383 miliardi nelle casse delle banche italiane. La riforma presentata dal commissario Paolo Gentiloni introduce maggiore flessibilità e si affida a una contrattazione con i singoli stati che tenga conto delle diverse condizioni e delle singole necessità. La Germania chiede una bussola comune per evitare una discrezionalità eccessiva, fonte di conflitti spesso non ricomponibili. Su questo ha ragione, anche se ripropone un rigido automatismo (almeno l’un per cento di riduzione annua del debito) che rischia di ripetere i vecchi difetti. Non si torna indietro, ma non si va avanti abbastanza. Mentre l’Italia può restare incastrata. La Commissione europea vorrebbe chiudere il negoziato al 31 dicembre, qualche settimana prima di andare a casa. Vedremo i risultati elettorali, ma è facile prevedere che la nuova commissione sarà più conservatrice anche nelle politiche di bilancio, lo sono del resto gli stessi governi “sovranisti” che piacciono alla Meloni. La riforma attribuisce maggiori poteri di indirizzo e di controllo a Bruxelles, soprattutto sui paesi ad alto debito, siamo sicuri che non sarà penalizzata proprio l’Italia?

Italia in trappola? Il governo intende mettere in un solo paniere tutte le uova europee, Mes compreso, con il rischio di fare una frittata e chiede di prendere tempo, tuttavia il nuovo patto non potrà operare retroattivamente sul bilancio 2024 né sulla Nadef 2024-27. Il problema è avere una proposta sulla quale costruire un consenso, non battersi per una tregua. Escludere dal calcolo del deficit gli investimenti per la riconversione verde e digitale, oltre alle spese militari, fa senso, tuttavia non sarebbe un gran sollievo se viene previsto per i paesi ad alto debito con “squilibri macroeconomici eccessivi” (l’Italia e la Grecia) che la procedura per disavanzo eccessivo scatti automaticamente e non riguardi solo la finanza pubblica, ma anche le politiche di riforma. Draghi nel suo discorso ha avanzato alcune proposte ambiziose: 1 - “un bilancio centrale a fini di stabilizzazione e trasferimenti fiscali transfrontalieri”, due condizioni che dovrebbero accompagnare la politica monetaria e attenuarne gli effetti negativi; 2 - una spesa “federalizzata”, cioè in capo all’Unione europea per una quota delle risorse necessarie a raggiungere gli obiettivi strategici condivisi; 3 - “l’emissione di debito comune per finanziare questo investimento”. Ma il governo da lui presieduto si è limitato a sostenere la riforma Gentiloni. Non c’erano le condizioni politiche per fare altro, eppure sulle regole europee dalle quali dipende gran parte del nostro futuro, non si è aperto un dibattito nazionale e non lo si sta aprendo nemmeno adesso. Secondo Draghi “gli europei oggi hanno solo tre opzioni: paralisi, uscita o integrazione”. Altro che granchi blu, bisogna temere i sorci verdi. La nostra carrellata non ha una conclusione, tanto meno pistolotti finali. Tornano a sventolare le bandierine (autonomia per la Lega, premierato per i Fratelli), s’infiamma la polemica sui colossali sprechi del bonus edilizio (girano le cifre più disparate: 60, 73, 86 miliardi di euro) che è stato ridotto, ma non è scomparso, come del resto il Reddito di cittadinanza sul quale si scatena la piazza populista, fino a minacciare via social media Giorgia Meloni. Finita la luna di miele e ancora non cominciata la conta elettorale, sarebbe meglio fare un serio tagliando alla macchina che sta per incepparsi ben bene.

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