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la proposta

Tassare le banche? Almeno lo si faccia in modo virtuoso

Nicola Rossi

Il provvedimento del governo sugli extraprofitti avrebbe un’alternativa: colpire le garanzie pubbliche, che passata la pandemia non hanno oggi alcuna giustificazione. Un modo utile anche per porre un freno all’utilizzo di uno strumento potenzialmente molto distorsivo

Le fonti rinnovabili, prima. Poi, l’energia. Adesso il credito. L’idea che gli extraprofitti – quale che sia la definizione – siano base imponibile con caratteristiche tali da meritare una imposizione che vada oltre quella ordinaria sta ormai diventando parte integrante del nostro sistema tributario. Com’è ovvio, è un errore per molti motivi. Per le serie conseguenze – in termini di incertezza, complicazione ed arbitrarietà – sul sistema tributario. Per le rilevanti conseguenze sul sistema bancario – anche in termini di patrimonializzazione – che, si noti, già oggi paga una addizionale Ires sui suoi utili e che è alle prese anche con le conseguenze negative – che non mancano, ad esempio in termini di liquidità – della inversione di tendenza della politica monetaria. E, ancor di più per le gravi conseguenze – in termini di penalizzazione diretta e indiretta dei comportamenti più efficienti – sul sistema economico nella sua interezza. 

Peraltro, stupisce che – volendo intervenire a favore dei mutuatari colpiti dall’incremento dei tassi di interesse e volendo anche, comprensibilmente, accantonare risorse per dare credibilità alla fase di avvio della riforma tributaria – il governo abbia scelto una strada così impervia, aleatoria e colma di insidie. Politicamente molto “vendibile” ma nel medio periodo tutt’altro che priva di costi e di controindicazioni. E stupisce perché c’era, a portata di mano, una strada diversa e assai più lineare in grado, fra l’altro, di indurre comportamenti virtuosi da parte del sistema bancario e di conseguenza rafforzarlo.

Alla metà del 2022 la Banca d’Italia stimava in circa 300 miliardi di euro il volume di garanzie pubbliche concesso, per il tramite di Mcc o Sace, agli istituti di credito. E’ lecito presumere che il dato odierno sia superiore a quella cifra. 

Una cifra molto rilevante che, sulla base dei tassi di default oggi osservati, nasconde oneri impliciti per il bilancio pubblico che non è poi così avventuroso stimare in parecchi miliardi di euro nei prossimi anni. Una cifra significativa che nasconde la scelta di molti istituti di credito di “spingere” sugli impieghi godendo così delle implicazioni di tassi di interesse in crescita. Una cifra preoccupante perché può celare la scelta di alcuni istituti di credito di valutare con una attenzione minore del dovuto il merito di credito. Comprensibili (forse) nel pieno della crisi pandemica, le garanzie pubbliche non hanno oggi alcuna giustificazione e costituiscono una potenziale fonte di distorsione dei comportamenti e di debolezza per il sistema bancario.

Attualmente, le imprese (diverse dalle startup e dalle Pmi innovative) che, per esempio, si vedono erogare finanziamenti garantiti dal Fondo di garanzia pagano una commissione diversificata per dimensione. Alle banche – che, come si è osservato, possono servirsi delle garanzie per espandere i bilanci con rischi limitati e lucrare i conseguenti margini da intermediazione – nulla invece viene richiesto. Nonostante possano, in linea di principio, godere di un beneficio indiretto o essere causa, nell’ipotesi di una valutazione non approfondita del merito di credito, di un onere per la collettività. Sarebbe del tutto ragionevole e sensato, anche a fronte dei potenziali futuri oneri a carico della finanza pubblica, chiedere alle banche che abbiano fatto uso delle garanzie pubbliche di pagare una tassa a fronte del servizio di fornitura delle garanzie stesse (o, per meglio dire, delle controgaranzie offerte a Mcc e Sace) pari, ad esempio, nel 2024 a una percentuale moderata del volume delle garanzie stesse in essere al 31 dicembre 2020, nel 2025 alla stessa percentuale ma sul volume delle garanzie attivate nel 2021, e così via, fino al momento dell’azzeramento dei nuovi flussi. In questo modo si otterrebbero diversi risultati. Si garantirebbero flussi non temporanei certamente utilizzabili – proprio perché non one-off – a copertura della riforma tributaria (o se si vuole da utilizzare a beneficio dei mutuatari). Si penalizzerebbero le imprese bancarie che hanno negli ultimi anni fatto ricorso alle garanzie anche per mascherare le proprie inefficienze (ad esempio nel contenimento dei costi o nell’incremento dei margini di efficienza). Si porrebbe un freno all’utilizzo di uno strumento potenzialmente molto distorsivo.

Si dirà che le banche non mancherebbero di trasferire sui clienti i maggiori oneri così generati. In effetti potrebbero farlo ma non sui titolari di mutui ipotecari che non dovrebbero avere garanzie diverse dall’immobile. E, per inciso, pensare che anche l’imposta sugli extraprofitti – che per il momento è stata già pagata da chi ha investito in titoli bancari – non venga prima o poi trasferita alla clientela è francamente ingenuo. Del resto, non era poi così difficile capire che era necessario seguire un’altra strada. Bastava ricordare chi una simile proposta l’aveva già fatta e notare come tutte le proposte provenienti da quella stessa fonte si siano rivelate negli ultimi anni nel migliore dei casi fallimentari. Come si dice: timeo Danaos et dona ferentes.
 

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