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Perché ora gli investitori stranieri vengono in Italia

Stefano Cingolani

Gli investimenti dall'estero sono raddoppiati negli ultimi due anni e la fiducia è in continua crescita. Cosa emerge dal rapporto Ernst & Young

Gli investimenti stranieri in Italia sono raddoppiati negli ultimi due anni, ma soprattutto è cambiata l’idea che si ha del paese all’estero, mentre l’accorciamento della catena globale offre nuovi vantaggi. E’ quel che emerge dall’EY (Ernst & Young) Europe Attractiveness Survey 2023, la ricerca annuale sugli investimenti diretti esteri e le percezioni di investitori, rappresentanti istituzionali e opinion leader locali e internazionali che il Foglio è in grado di anticipare. Il risultato smentisce le letture pauperistiche prevalse nel circo mediatico-politico. Nessun trionfalismo, ma basta piagnistei.

  


La diretta del digital talk EY Italy Outlook 2023

      


   

Si può dire che la risposta alla pandemia abbia spinto a guardare l’Italia con meno paraocchi; se vogliamo buttarla in politica, è l’effetto dell’accelerazione introdotta dal governo Draghi, ma la svolta a destra non ha portato le nubi tempestose che molti temevano. La crescita del numero di progetti su base annua è del 17 per cento, dato superiore rispetto a quello delle tre maggiori economie europee, Germania (-1 per cento), Regno Unito (-6) e Francia (+3). Nell’insieme il Vecchio continente registra un modesto più 1,4 per cento rispetto al 2021, ma l’Italia si posiziona tra i primi dieci per numero di progetti, “un segnale di fiducia nei confronti del sistema paese”, commenta Massimo Antonelli, ceo di EY in Italia.

Questo il bicchiere mezzo pieno, quello mezzo vuoto è che con il 4 per cento la quota di investimenti esteri è ancora sottodimensionata: la distanza dalla Francia, la più attrattiva con il 21 per cento, è ancora enorme, lontane anche Regno Unito (16 per cento) e Germania (14). “Ciò significa che possiamo crescere ancora molto. L’opportunità offerta dal Pnrr e la tenacia dimostrata dal tessuto imprenditoriale italiano possono essere alla base di nuove strategie di crescita nel medio e lungo periodo”, prosegue Antonelli. Da dove provengono gli investimenti? Soprattutto da Stati Uniti (21 per cento), Francia e Regno Unito (14), Germania (11) che scende dal secondo al quarto posto. I capitali e le imprese estere vanno innanzitutto nei servizi B2B e nel comparto dell’Information technology, con il 19 e il 16 per cento del totale. In calo trasporti e logistica (-4 per cento). Tra le motivazioni prevale il mercato da conquistare, del resto il gioco degli scambi è questo: le merci, gli uomini, le imprese si muovono per ottenere migliori possibilità di vivere e guadagnare. Il 68 per cento degli investimenti è volto al posizionamento sul mercato locale; mentre il 32 è guidato dalle competenze e dal know-how locale.

Chi investe va per lo più nel nord-ovest (57 per cento), dove si trovano alcuni dei distretti più attrattivi (meccanica, tessile, pelletteria, design, automotive), seguono il centro Italia (16 per cento) e il nord-est (12). Il Meridione sale dal 10 al 15 per cento del totale. Colpisce la minor quota del Triveneto, ma bisogna proiettare il trend su un arco di tempo più lungo prima di concludere che è risorto l’antico Triangolo industriale Torino-Milano-Genova rispetto alle aree che avevano preso la leadership negli ultimi decenni, il nord-est e la fascia adriatica. Molto incoraggiante il giudizio sul prossimo futuro: il 54 per cento delle imprese intervistate ha intenzione di investire nei prossimi dodici mesi e il 57 ritiene che l’Italia sarà ancor più attrattiva nei prossimi tre anni. Digital economy, energia e beni di consumo, incluso l’agroalimentare, sono i più promettenti. Business services, marketing e vendite, processi di produzione sono le funzioni aziendali su cui gli investitori esteri puntano maggiormente, effetto dei trend di reshoring e nearshoring. La ricerca e sviluppo ancora risulta meno evoluta in Italia, “lo spazio di miglioramento è ampio e si potrà far leva sugli investimenti pubblici del Pnrr”, commenta Marco Daviddi, Strategy & Transactions Managing Partner di EY in Italia. Le imprese italiane sono promosse per l’impegno su tematiche Esg, incentivi all’innovazione tecnologica e formazione del capitale umano. Più del 50 per cento degli investitori ritiene che il Bel paese abbia una quota superiore di fonti rinnovabili nel mix energetico, dopo Regno Unito e Portogallo. Roma, Londra e Parigi hanno la miglior tutela della proprietà intellettuale; infine, per il 52 per cento degli intervistati l’Italia è sopra la media continentale nel promuovere una cultura aziendale flessibile e inclusiva. Ma che cosa bisogna fare per attrarre più investimenti? Ridurre le tasse? Solo il 35 per cento degli investitori (rispetto al 70 del 2021) la pensa così. Il 34 per cento vuole un taglio al costo del lavoro, ma i veri punti deboli sono sempre i vincoli burocratici (64 per cento) e l’incertezza politica e regolatoria (55). Giancarlo Giorgetti può tirare un sospiro di sollievo, non gli chiedono robuste sforbiciate al cuneo fiscale. Ancora una volta, occorre sciogliere “lacci e lacciuoli”, altro che più stato, altro che dirigismo e protezionismo. La ricerca di EY smentisce sia la narrazione nazional-populista sia quella di un’Italia indebolita sul piano internazionale.

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