Foto Ansa

L'analisi

Taglio del cuneo e fiscal drag, i problemi irrisolti del governo  

Marco Leonardi e Leonzio Rizzo

Per sconfiggere l’inflazione bisogna evitare la spirale prezzi-salari, ma per ridurre il cuneo fiscale il governo ha deciso di agire riducendo i contributi pagati dai lavoratori senza tuttavia fare alcun intervento sull’Irpef

Mentre l’inflazione colpisce duro i redditi da lavoro, soprattutto i redditi bassi e il lavoro dipendente, i profitti paiono essere esenti. C’è un dibattito in Europa su quanto le aziende siano riuscite a trasferire l’aumento dei costi delle materie prime e dell’energia in maggiori prezzi di mercato. La storia sarebbe la seguente: nel 2022 vi è stato un aumento del prezzo del gas e molte aziende sono riuscite (per fortuna! sennò sarebbero fallite) a traferire i costi su più alti prezzi. Ora che i costi sono scesi, i prezzi non sono stati rivisti al ribasso e quindi i profitti sono aumentati. Diciamo subito che per adesso non c’è gran prova di questa teoria soprattutto in Italia. Il passaggio dei prezzi degli input ai prezzi finali è l’unico modo che hanno le aziende di sopravvivere e la disciplina del mercato dovrebbe impedire loro di esagerare con il ricarico dei prezzi: in fin dei conti finché c’è concorrenza (benedetta concorrenza!) un aumento eccessivo dei prezzi è limitato da una domanda che si trasferisce ad altri produttori. Anche se fosse vero che i prezzi sono aumentati, è difficile costruire un argomento per un’imposta sui profitti perché non tutte le aziende avranno potuto aumentare i prezzi ma solo quelle che pur facendolo sono riuscite a non perdere quote di mercato. 

 

Per sconfiggere l’inflazione bisogna evitare la spirale prezzi-salari cosa che per il momento pare scongiurata ma che comunque vuol dire che l’aggiustamento cade sulle spalle dei lavoratori dipendenti. Fa quindi bene il governo a ridurre il cuneo fiscale sui redditi bassi. A patto che 1) sia strutturale; 2) sia al netto dalle imposte. Ci spieghiamo meglio. Per ridurre il cuneo fiscale si è deciso di agire riducendo i contributi pagati dai lavoratori senza tuttavia fare alcun intervento sull’Irpef. Nel governo Draghi la riduzione del cuneo fiscale fu anche accoppiata a una riduzione delle aliquote marginali degli scaglioni di reddito medio bassi. La riduzione dei contributi sociali da pagare aumenta lo stipendio al netto dei contributi e quindi il reddito imponibile da sottoporre a tassazione. Questo meccanismo, che sembra dimenticato nel dibattito di questi giorni, porta a far sì che con l’ultimo provvedimento del governo, poco più di 4 miliardi di riduzione dei contributi porti nelle casse dello stato più di 1 miliardo di maggiori entrate Irpef. Quindi in realtà la diminuzione del cuneo fiscale ammonterebbe a poco meno di tre miliardi. Questo non è accaduto per gli 80 euro di Renzi e poi 100 euro di Gualtieri, e per l’una tantum di 200 e poi 100 di Draghi che erano già netti delle imposte.

 

In virtù della progressività del sistema fiscale, una diminuzione dei contributi che provoca un aumento, ad esempio, del 10 per cento del salario al lordo delle imposte implica un aumento delle imposte da pagare superiore al 10 per cento. Questo effetto si chiama fiscal drag e c’è solo per i salari perché dipende dal fatto che la tassazione sul lavoro è progressiva per scaglioni e non proporzionale come per i profitti o le rendite delle case e finanziarie che invece ne sono immuni. Per evitare tale effetto perverso sui redditi da lavoro dipendente nel provvedimento del governo del 1° maggio si sarebbe potuto pensare di compensare il pagamento delle imposte sull’incremento di reddito dovuto al taglio dei contributi. Il tema del fiscal drag è di grande attualità in un periodo di tassi di inflazione annuali vicini al 9 per cento. Infatti, sicuramente sarà necessario adeguare i salari con i prossimi Ccnl, ma sarà anche importante studiare un meccanismo di sterilizzazione del fiscal drag se si vuole evitare di rendere poco efficaci gli aumenti dei salari nominali.

 

L’inflazione raddoppia il peso dell’aggiustamento sui salari da lavoro dipendente, sia perché ne abbassa il potere d’acquisto, sia perché quando i salari si adeguano all’inflazione la tassazione progressiva erode parte dell’adeguamento. Questo mette in evidenza ancor più i limiti della struttura della nostra tassazione. L’equilibrio politico sembra ormai attestato nel non voler tassare le prime case (prima Berlusconi e poi Renzi abolirono l’Imu sulla prima casa) ma l’unico reddito che sale è quello delle rendite immobiliari, così come risulta dai dati dell’Agenzia delle Entrate. Ma almeno a livello di tassazione locale, che oggi, a parte l’Imu sulle seconde case, pesa solo sul lavoro con le addizionali Irpef, si può fare qualcosa. Ha più senso che le città si finanzino sulle spalle dei lavoratori i cui redditi non crescono anzi scendono per via dell’inflazione o sulle spalle di chi possiede seconde o terze case e le affitta o peggio ancora non le affitta?

Di più su questi argomenti: