Il viceministro dell'Economia Maurizio Leo (Ansa)

Da Berlusconi a Meloni

Cosa manca alla delega fiscale per considerarla un Patto per l'Italia

Oscar Giannino

La semplificazione degli adempimenti per il contribuente sostenuta dal viceministro Leo è un buon inizio. Ma non si capisce ancora quanto in concreto cittadini e imprese si devono aspettare di pagare nei prossimi anni

In un videomessaggio ieri agli Stati Generali dei commercialisti, il premier Giorgia Meloni ha dichiarato che la legge delega di riforma fiscale mira a essere un vero e proprio “Patto fiscale per l'Italia, tra stato e cittadini”. E la memoria è andata subito al “Contratto con gli italiani” che Silvio Berlusconi dal 2001 in avanti prese a firmare a ogni campagna elettorale negli studi di Bruno Vespa. Contratti mai rispettati, visto che in quello iniziale si proponeva esenzione totale Irpef per redditi annui fino a 22 milioni di lire, aliquota del 23 per cento fino ai 200 milioni, e del 33 per cento per tutti coloro sopra quella soglia. Ora la domanda è: Meloni vuol fare il bis di promesse elettorali cui non crede nessuno? Alle elezioni mancano anni, il Cavaliere andava da Bruno Vespa pochissimi giorni prima del voto in modo che nessuno potesse smontargli il giocattolo.

 

Ora invece di tempo ce n’è. Ergo cerchiamo di capire che cosa manca alla delega fiscale per poterla davvero considerare un Patto per l’Italia. La parte che sicuramente è più vicina a poterlo diventare è quella in cui è più rilevante l’apporto di Maurizio Leo, l’estensore della delega. Cioè le molte novità di semplificazione sull’intera complessa gamma degli adempimenti per il contribuente, dal rafforzamento degli interpelli preventivi per ognuna delle quattro fasi di interazione tra contribuente e stato fino al contenzioso. Si evitano condoni penali per l’omessa dichiarazione ma giustamente si prevede per chi regolarizza omessi versamenti congrue rateazioni e taglio di sanzioni e interessi di mora giunti a livelli mostruosi. I problemi vengono invece su quanto in concreto cittadini e imprese si devono aspettare di pagare nei prossimi anni. Dalla delega, non si capisce. Su questo, il Patto con l’Italia è tutto da costruire. E' apprezzabile che dal testo sia sparita l’indicazione delle aliquote Irpef cui il governo mira. E' prevalsa la prudenza del Mef, come nella legge di bilancio e nel recente Def. Meloni e Giorgetti non hanno voluto bissare le spericolate promesse del Cavaliere. Ma in vista della prossima legge di bilancio bisogna che il governo si chiarisca. Senza un’idea precisa delle aliquote, né tanto meno delle riviste detrazioni/deduzioni Irpef, non è possibile in alcun modo effettuare calcoli. Né sulle aliquote reali che ne deriverebbero davvero (in termini di progressività), né sugli effetti per bilancio e deficit pubblico.

 

La bandierina “Irpef tra 5 anni e flat tax per tutti” è puro slogan ideologico. Dalle misure di queste settimane sembra che l’intervento sul cuneo contributivo resti anche in futuro slegato dalla revisione generale Irpef, visto che il governo ripete che per confermare nel 2024 i 7 punti di sgravio per i lavoratori entro i 35 mila euro di reddito bisognerà lì convogliare tutto il maggior gettito da maggior crescita dell’anno. Il che significa che non si sa per il resto dove trovare le risorse per pareggiare davvero la diminuzione dichiarata della pressione fiscale. Di cui nel Def non c’è traccia: la pressione fiscale scende solo di uno 0,8 per cento di pil al 42,7 per cento nel 2026, e lì resta. Né c’è traccia di un energico impegno di revisione e riduzione della spesa per finanziare la riforma fiscale: i risparmi di spesa previsti al 2026 sono in tutto di 5,7 miliardi, rispetto ai 1083 miliardi di spesa nel 2022. Sull’Iva, si continua a parlare di abbassarla su questo o quel consumo. Senza dettagli. Sulle accise, la delega mira ad agevolare le fonti di energia rinnovabili. Senza un’unica visione che leghi precisamente interventi su accise, detrazioni e deduzioni e sussidi di ogni tipo ai soggetti in campo energetico, una sorta di codice tributario organico per green-ambientale.

 

Venendo alle imprese, aiuta la crescita prevedere l’aliquota Ires scenda dal 24 per cento fino al 15 per cento in caso di destinazione degli utili non a dividendo ma a investimenti. Ma non ha senso prevedere l’agevolazione a seconda della quantità di assunzioni di categorie decise dalla politica. In questo, la destra si rivela uguale alla sinistra, unite dall’idea che è lo stato a decidere chi va occupato. Va cambiata la proposta su Irap: non va bene abbatterla solo per ditte individuali e società di persone, e riservare alle società di capitali la beffa di un’Irap sostituita con una sovraimposta su base imponibile Ires. Infine, non c’è traccia di rendere gli incentivi Industria 4.0 e Industria 5.0 strumenti ordinari e permanenti, leve strutturali per far crescere e attirare imprese nei prossimi anni e decenni, invece di restare soggetti a modifiche e tagli annuali che rendono impossibile ogni seria programmazione. Per un vero “Patto fiscale con l’Italia”, dunque mancano ancora molti numeri e proposte d’insieme che nascano da che cosa fa crescere davvero in Italia lavoro, reddito ed export. Speriamo. Ma evitateci il bis di Berlusconi. 

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