Foto di Matteo Bazzi, via Ansa 

l'analisi

La classe media con la nuova delega? Tartassata. La trappola della doppia progressività

Massimo Baldini

La riforma fiscale del governo Meloni ha aspetti in comune a quella di Draghi, ma è coerente a obiettivi diversi. Si sta scegliendo di puntare sulla riduzione delle imposte. Una strada che ha dei vicoli ciechi

La recente legge delega sulla riforma del fisco presentata dal governo Meloni ha molti aspetti in comune con quella del governo Draghi, è vero. Però a volte bastano poche parole per rivelare grandi differenze. Sull’Irpef, ad esempio, la delega di Draghi si ispirava al modello duale, mentre quella di Meloni indica la flat tax come obiettivo di lungo periodo. Lo schema duale – che tassa tutti i redditi di capitale alla più bassa aliquota dell’imposta sul reddito, a cui sono sottoposti in modo progressivo gli altri redditi – rimanda a due obiettivi collegati: trattare in modo omogeneo i diversi tipi di reddito e mantenere un buon grado di progressività.

La flat tax invece mette in secondo piano il tema dell’uniformità del trattamento di redditi diversi (tanto saranno tutti colpiti dalla stessa aliquota o da aliquote vicine) e riduce la progressività, a meno che non abbia – caso che nessuno propone – un’aliquota molto alta. Anche se non arriveremo mai alla flat tax, la nuova legge delega è coerente con obiettivi molto diversi da quelli del tempo di Draghi. Nessuno è soddisfatto dell’attuale Irpef, che ormai colpisce quasi solo dipendenti e pensionati, è distorsiva e iniqua perché presenta troppi trattamenti di favore e casi particolari. Con il modello duale si poteva pensare a un’imposta rifondata su criteri di equità ed efficienza, almeno nelle intenzioni, con quello della flat tax è più probabile che si prenda atto della situazione esistente.  

L’impostazione della legge delega è anche la conseguenza di un lungo processo che si può far risalire alla stagnazione ultradecennale dell’economia italiana. Se il pil non cresce, quali sono le conseguenze sul sistema di tassazione e spesa sociale? Certo, dal punto di vista “normativo”, cioè di cosa si dovrebbe fare per invertire la tendenza, sarebbe importante ridurre l’onere fiscale su chi investe e lavora e incentivare ricerca e formazione, colpendo le rendite e redistribuendo dagli anziani ai giovani, il contrario di quello che si fa da lungo tempo. Ma da un punto di vista “positivo”, cioè se vogliamo capire cosa sta accadendo, è probabile che il declino spinga i contribuenti-elettori a chiedere allo stato quegli incrementi di reddito che l’economia non riesce più a garantire.

Da qui le tante vittorie elettorali dei partiti che promettono meno tasse per tutti, la frammentazione della base imponibile dell’Irpef per accontentare le varie richieste (ampliamento del regime forfettario, premi di produttività, cedolare secca sugli affitti e così via) e l’esplosione delle tax expenditure, fino al caso limite del Superbonus. Un processo che ha visto anche l’esclusione dal pagamento dell’Irpef della coda sinistra della distribuzione del reddito, che guadagna troppo poco per poter contribuire. 

Il declino non rafforza solo le richieste di pagare meno imposte, ma ha conseguenze anche sulla spesa sociale. I redditi medio-alti ristagnano e quelli bassi precipitano, determinando la crescita della povertà e della domanda per trasferimenti monetari molto redistributivi. Da qui il Reddito di cittadinanza e l’Assegno unico per le famiglie con figli. Si rafforza inoltre l’uso dell’Isee per selezionare i beneficiari dello stato sociale. 

Il declino quindi determina notevoli conseguenze nella relazione tra i vari gruppi di reddito e il sistema di tax-benefit. I poveri pagano ormai poca o nessuna Irpef e sono sottoposti a una selettività che almeno sulla carta è molto forte, i benestanti versano molta Irpef ma hanno le risorse per comprare sul mercato i servizi di welfare di cui hanno bisogno (ad es. per i bambini o gli anziani), mentre la classe media rimane incastrata in una doppia progressività: paga molte imposte ma riceve in cambio pochi servizi e trasferimenti, che sono sempre meno universali e più selettivi a causa della scarsità di risorse frutto della stagnazione. 

Alla trappola della doppia progressività si può reagire in due modi. Il primo è insistere per partecipare alla spesa sociale accettando un’alta pressione fiscale, il secondo è chiedere la riduzione delle imposte per poter comprare sul mercato i servizi di welfare. Modello Svezia o modello Stati Uniti (ma senza la crescita economica americana)? Pare che le preferenze elettorali e la legge delega propendano per il secondo, con un rischio: visto il livello del debito pubblico e il prossimo ritorno dei vincoli di bilancio europei, la riduzione della pressione fiscale non potrà che essere modesta, anche perché l’invecchiamento chiede nuova spesa pubblica. Se si andrà verso un’Irpef meno progressiva ma con incidenza ancora alta, le classi medie rimarranno tartassate e con pochi servizi.

Massimo Baldini
Economista, Università di Modena e Reggio Emilia