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l'analisi

Immigrazione e lavoro: cinque punti per una svolta

Oscar Giannino

Servono centinaia di migliaia di lavoratori in più. Ma non ci sarà crescita senza una seria politica di inclusione sociale, lavorativa e di cittadinanza

Al di là dello scontro preventivo con Salvini che mirava ovviamente a più restrizioni nel decreto sull’immigrazione approvato in Consiglio dei ministri a Cutro, c’è un punto di fondo su cui ieri è stata avviata una primissima riflessione, apprezzabile ma che non configura ancora piena consapevolezza della svolta necessaria. Quale sia, è presto detto. Siamo reduci da trent’anni in cui le misure sull’immigrazione sono state improntate a stagioni più o meno toste volte a impedire gli sbarchi e a combattere l’immigrazione clandestina. Abbiamo moltiplicato le tipologie dei centri di accoglienza o semidetenzione degli sbarcati, i vari Cara, Cas e Sprar, e finanziato autorità legali e milizie private come la Guardia costiera libica perché li fermassero e tenessero a casa loro in  condizioni disumane. Ma non abbiamo mai messo mano a una seria politica di inclusione lavorativa, sociale e di cittadinanza. L’abbiamo lasciata ai comuni e agli enti locali. Come se avessero pochi guai da affrontare. Per una svolta, serve mettere mano seriamente a un sistema per flussi legali di immigrati. È l’occupabilità la svolta: e se il governo imbocca davvero questa strada, allora può pensare a un vero patto con le imprese. 

 

Il primo passo è cambiare radicalmente la Bossi-Fini: che al di là delle intenzioni, è fallita assai prima del ventennio da cui vige. I 60-80 mila flussi autorizzati annuali secondo le condizioni di “un contratto già in tasca per uscire dall’illegalità” hanno mostrato l’errore del meccanismo. Gli imprenditori hanno smesso presto di credere nell’efficacia delle segnalazioni delle qualifiche richieste allo Sportello unico per l’immigrazione istituito allora. Di qui sono nate le successive e reiterate sanatorie per i clandestini in Italia, con oltre 2,5 milioni di regolarizzazioni. Di qui è nato anche l’errore altrettanto reiterato di credere servissero solo per le esigenze dei collaboratori domestici e badanti, o per gli stagionali in agricoltura. La restrizione dei perimetri era solo figlia dei prevalenti interessi elettorali di chi varava le sanatorie, non di un’analisi strutturale dei fabbisogni. Oggi l’Italia, più che mai, deve darsi misure strutturali per l’occupabilità.

 

I tassi di attività dei residenti italiani restano molto bassi, e la curva demografica suicidaria apre un baratro di cui pochi sembrano consapevoli. In un occasional paper del settembre scorso, economisti della Banca d’Italia stimavano in circa 300 mila gli occupati aggiuntivi al 2024 in Italia dovuti al Pnrr, ma sottolineavano che con un tasso di partecipazione al lavoro così basso e proiettando in avanti l’attuale curva demografica, l’offerta di lavoro nella fascia 15-64 anni si contrarrà entro il 2026 di circa 630 mila persone, con un calo del 2,6 per cento. La proiezione Eurostat aggiunge che entro il 2030 il calo di offerta di lavoro in Italia arriva al 6 per cento del totale 2021. In alcune regioni italiane che più perdono popolazione grazie agli svantaggi economici, come la Calabria, il calo giungerebbe al 12 per cento. L’emergenza attuale è che già le imprese sono a livelli record di posizioni non coperte nelle qualifiche tecniche necessarie alla transizione digitale, green e verso Industria 5.0. Se sommiamo anche una diminuzione così rilevante dell’offerta di lavoro, andiamo sicuramente a sbattere. Servono centinaia di migliaia di lavoratori in più, un guaio che non si risolve solo con la riforma del Reddito di cittadinanza. Un vero patto per le imprese richiederebbe cinque scelte. Va bene rendere i flussi autorizzati triennali, ma la stessa banca dati interoperabile fra tutti gli enti che si occupano di politiche attive del lavoro promessa con la riforma del Rdc per i 400 mila “occupabili” deve essere estesa ai profughi che sbarcano in Italia non richiedenti asilo, oltre che ovviamente a tutti gli italiani. 

 

Il secondo punto è che è difficile cominciare dal punto finale della valutazione di occupabilità, spostandolo, cioè in ambasciate e consolati nei paesi di provenienza dei flussi: a parte che il Mae non ha le risorse tecniche per farlo, bisogna invece cominciare dal basso, cioè da un unico sistema digitale interoperabile di cui le imprese si fidino, per convogliarvi la propria domanda. Il terzo punto è che per ottenere questa fiducia occorre aprire il pieno accesso all’interoperabilità dei dati a tutti i soggetti accreditati delle politiche attive su piede paritario, non solo i Centri pubblici per l’impiego ma tutte le agenzie private per il lavoro che conoscono da vicino e sul serio i fabbisogni delle imprese settore per settore, e ottengono risultati molto migliori per i profili di formazione che intermediano.

 

Il quarto punto è ancor più ambizioso: una vera svolta per l’occupabilità di italiani e immigrati richiede una svolta organica coordinata di tutte le leve politiche da far convergere a tal fine: la riforma fiscale, quella contributiva e previdenziale, quella del sistema formativo pubblico, della formazione professionale permanente. Politiche attive efficaci del lavoro sono figlie di questa visione organica coordinata, non di un solo decreto. Il quinto punto è convincersi davvero che se vogliamo uscire dall’attuale trappola anticrescita, cioè dai quattro freni di meno lavoratori potenziali, troppi inattivi, fuga di cervelli dall’Italia e lavoro nero clandestino, allora questa è una sfida da concepire insieme sia per il futuro degli italiani, sia degli immigrati integrati che abbiamo assoluta necessità di accogliere.

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