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i nostri debiti

Come e fino a che punto l'inflazione aiuta i conti pubblici italiani

Giampaolo Galli

I canali attraverso cui l'innalzamento dei prezzi (e la conseguente diminuzione del potere d'acquisto) influenza il rapporto debito/pil sono tre: l'aumento del denominatore, la crescita del gettito fiscale e il fatto che i tassi di interesse salgano, penalizzando il deficit

L’inflazione è dolorosa per le famiglie che hanno qualche risparmio da parte, ma dà una mano al debitore per eccellenza, che è lo stato. Molte volte nel secolo scorso le crisi derivanti da alti debiti pubblici sono stati risolte dall’inflazione. È accaduto anche in Italia.

Secondo una ricostruzione della Banca d’Italia, durante la guerra la lira si ridusse a un trentesimo del suo valore prebellico; il che vuol dire che chi aveva un titolo del valore di 100 lire, dopo la guerra si ritrovò con poco più di 3 lire. Oggi, per fortuna, l’inflazione è molto più bassa di allora, ma è pur sempre all’8,4 ed è giusto chiedersi quanto ci guadagni lo stato.

I canali attraverso i quali, nelle condizioni attuali,  l’inflazione influenza l’andamento del debito, o meglio del rapporto debito/pil, sono tre. Il primo è dato dall’aumento delle basi imponibili e dunque del gettito fiscale. Per il 2022 questo canale è stato interamente sterilizzato perché tutto l’extra gettito dovuto al rincaro dell’energia e degli altri beni è stato restituito ai contribuenti, specialmente ai più bisognosi, sotto forma di sostegni.

Il secondo canale è dato dall’aumento del denominatore del rapporto debito/pil e dunque dal pil a prezzi correnti. Per valutare l’importanza di questo canale, occorre fare una stima dell’inflazione misurata dal deflatore del pil, non dall’indice dei prezzi al consumo. Questa variabile, il deflatore del pil, cresce molto meno dell’indice dei prezzi al consumo perché misura l’inflazione interna, quella che può essere causata da aumenti dei salari o della quota dei profitti. Nel 2022 quasi tutta l’inflazione è importata e dunque appare ancora ragionevole la previsione fatta dall’Istat nel giugno scorso: +3,4 per cento nella media del 2022. Questo numero è di poco superiore a quello previsto nel Def (+3 per cento) e applicato al debito pubblico (al netto della parte rappresentata da titoli direttamente o indirettamente indicizzati all’inflazione) comporta un vantaggio per lo stato quantificabile in 9,5 miliardi.

Ma il Def  già scontava un’inflazione molto più alta di quella della Nadef dell’ottobre 2021. Se dunque vogliamo avere una stima dell’effetto complessivo della maggiore inflazione dobbiamo fare il confronto con la Nadef, perché questa è stata redatta in un momento in cui ancora si prevedeva un’inflazione al consumo pari al canonico 2 per cento e un’inflazione del deflatore del pil al 1,6 per cento. Facendo questo confronto, l’effetto dell’inflazione risulta essere di 43 miliardi, il 2,3  per cento circa del pil. 

Rimane da valutare il terzo canale, che è dato dai tassi di interesse che salgono, anche se con ritardo rispetto a un‘inflazione in gran parte inattesa, e quindi peggiorano il deficit. Attualmente, i tassi a 10 anni sono al 4 per cento, un valore ben più alto di quello previsto dal governo sia a ottobre dell’anno scorso (1 per cento) sia a maggio (2,5 per cento). Una valutazione ragionevole per i tassi a 10 anni nella media del 2022 è oggi 3,5 per cento, il che comporta un costo aggiuntivo per lo stato di 7,5 miliardi in più di quanto previsto nella Nadef; questo effetto è piccolo perché la scadenza media dei titoli del debito pubblico supera i sette anni e il costo dei più alti tassi di mercato si fa sentire sulle casse dello stato solo man mano che si devono emettere nuovi titoli per rinnovare i titoli in scadenza o per finanziare il deficit. Dunque, nettando l’effetto positivo (+43 miliardi) e quello negativo (-7,5 miliardi) si ottiene l’effetto netto (35,5 miliardi) che ci dice qual è il beneficio per le casse dello stato di un’inflazione che è salita dal 2 per cento previsto nell’ottobre scorso all’8,4 per cento circa a cui siamo oggi. Si tratta del 2 per cento circa del pil. 

Se però vogliamo fare una previsione di dove si collocherà il rapporto debito/pil alla fine di quest’anno, dobbiamo tornare a confrontarci con il Def di aprile, perché questo tiene conto di vari altri fattori, a cominciare dalla maggior crescita che si è realizzata nell’ultima parte del 2021 e nella prima parte di quest’anno. In questo caso, il conto del dare/avere per lo stato è di soli 6,5 miliardi, il che  migliora di poco la previsione del governo di un rapporto debito/pil al 144 per cento, comunque in netta discesa rispetto al 147,6 per cento di fine 2021.   

Rimane una grande incognita. Di solito quando aumentano i tassi di  interesse,  aumentano anche gli spread fra buoni e cattivi debitori. A volte, al debitore ritenuto cattivo viene addirittura precluso l’accesso al mercato perché nessun risparmiatore se la sente di comprare i titoli emessi dal quel soggetto. E’ successo negli anni scorsi alla Grecia, all’Irlanda e al Portogallo. Non deve succedere all’Italia.

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