Un tetto al prezzo del gas è l'arma dell'Ue contro il potere di monopolio russo

Federico Boffa e Giacomo A. M. Ponzetto

La teoria economica insegna che i singoli importatori non possono individualmente tenere testa a Gazprom, controllata dal Cremlino. E’ invece l’Unione europea che può e deve contrastare la forza di Mosca nel mercato dell’energia

La Russia ha incontrato pochi ostacoli nello sfruttare il prezzo elevato dell’energia, in parte dovuto alla sua invasione dell’Ucraina, per ricavare dall’esportazione di idrocarburi ingenti profitti che finanziano la macchina bellica. Conta prevedibilmente poco l’embargo europeo sulle importazioni di carbone, che ammontavano ad appena 5,5 miliardi di euro nel 2021. Inciderebbe semmai un embargo sul petrolio (74 miliardi di euro), ma i governi europei continuano a discuterlo senza giungere a un accordo.
Intanto l’Eni ha aperto un conto in rubli presso Gazprombank, come Putin ora esige dai compratori europei di gas naturale russo. Dispiace che sia il grande gruppo industriale italiano ad assecondare  la richiesta del Cremlino. Non può però sorprendere: la teoria economica insegna che i singoli importatori, quand’anche abbiano le dimensioni dell’Eni, non possono individualmente tenere testa a Gazprom, società direttamente controllata dal governo russo e che gode di un monopolio legale sulle esportazioni di gas tramite gasdotto. E’  invece l’Unione europea che può e deve contrastare il potere di monopolio russo nel mercato dell’energia. Può perché ha un peso economico ben superiore non solo a quello dell’Eni, ma anche a quello di Gazprom. Deve perché la questione, prima ancora che di politica estera, è di politica commerciale, ambito di sua competenza esclusiva.
 

La risposta efficiente a un monopolio estero delle esportazioni è nota da decenni. Come spiega il libro di testo di Elhanan Helpman e Paul Krugman, massimi esperti  di economia internazionale, è una soluzione sorprendentemente semplice: occorre imporre un tetto al prezzo pagato ai fornitori russi. La logica sottostante è immediatamente intuitiva: per gli esportatori è meglio guadagnare meno che non guadagnare nulla. Non a caso Bloomberg riporta che la Russia sta vendendo petrolio all’India e alla Cina con uno sconto di circa  35 dollari al barile.
 

Sembra consapevole di questa politica ottimale il presidente del Consiglio Mario Draghi, che più volte ha dichiarato di propugnare in sede europea un calmiere dei prezzi pagati alla Russia. Perché dunque l’Ue non agisce? Presumibilmente per paura di una ritorsione russa. I manuali di economia assumono che gli esportatori si riconoscano incapaci di opporsi al tetto dei prezzi, come probabilmente farebbe Gazprom. Non così però il Cremlino, che potrebbe piuttosto sfidare l’Ue con un blocco delle esportazioni.
Ancorché il timore sia fondato, nuovamente concordano la teoria economica e il semplice buon senso: quanto più si dimostra di temere un ricatto, tanto più gravemente a esso ci si espone. In particolare, Putin ha ampiamente dimostrato la sua politica di rispondere a ogni concessione con maggiori richieste, e di rispettare invece unicamente le dimostrazioni di forza. Spetta pertanto all’Ue, e direttamente al governo italiano, proibire all’Eni e ad altri importatori di utilizzare i propri conti in rubli per pagare Gazprom. Al contrario, va ribattuto a Putin che se deciderà di rifiutare il pagamento in euro e chiudere i rubinetti del gas, non gli sarà concesso di riaprirli che a un prezzo calmierato.
 

Sono ovvi i vantaggi morali, strategici ed ecologici di tale scelta. Bloccare le esportazioni priverebbe Putin dei profitti che finanziano il suo governo, il suo esercito e i suoi oligarchi. Minerebbe altresì la sua popolarità mettendo a rischio l’occupazione nel settore energetico, che dà lavoro a 2,5 milioni di russi. Al contrario, stimolerebbe l’Europa a diversificare il proprio approvvigionamento energetico e accelerare la propria transizione verso fonti di energia più verdi e sostenibili.
Forse meno ovvi, ma non meno importanti, sono i vantaggi economici. Un blocco totale delle esportazioni energetiche russe costerebbe alla Germania un calo del pil tra lo 0,5 e il 3 per cento, secondo le più recenti e migliori stime di un gruppo di ricerca guidato da Moritz Schularick e Moritz Kuhn dell’Università di Bonn. E’ stimabile un effetto analogo per l’Italia, ma minore per l’Ue nel suo complesso. Costi significativi, certo, ma sostenibili; e, quel che più conta, di tanto più breve durata quanto più chiara sarà alla Russia la fermezza dell’Ue e la sua disponibilità a sostenerli. Al contrario, riconoscerci ricattabili da Putin comporterebbe costi duraturi, gravissimi sul piano economico e incalcolabili su quello politico.

 

Federico Boffa, Libera Università di Bolzano
Giacomo A. M. Ponzetto, CREI, Università Pompeu Fabra e Barcelona School of Economics

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