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I mercati mondiali ci dicono che scommettere sull'Ucraina è giusto anche per l'economia

Claudio Cerasa

Dopo il crollo improvviso all'inizio della guerra, il rafforzamento della sanzioni ha spinto i trader globali a puntare su uno scenario di pace. E poi la dipendenza che ha la Russia dall’occidente è infinitamente superiore rispetto a quella delle economie più sviluppate nei confronti del Cremlino

A quasi due mesi dall’inizio del conflitto in Ucraina, al netto delle strategie belliche, al netto dei rifornimenti militari, al netto del futuro delle battaglie energetiche, c’è una domanda molto complicata a cui bisogna provare a rispondere per tentare di capire qualcosa di più sul futuro della guerra. La domanda corrisponde a un mistero utile da approfondire, che riguarda un sentimento ormai diffuso nel mondo economico: l’assenza di panico sui mercati rispetto al destino della guerra. Nel giorno in cui la Russia ha invaso l’Ucraina, alla fine di febbraio, i mercati globali sono improvvisamente crollati. È crollato del 15 per cento il famoso indice S&P 500. È crollato del 20 per cento il Nasdaq Composite. E un trend simile è stato registrato anche in Europa. Eppure, dal 7 marzo, a cavallo con la scelta fatta dai grandi paesi occidentali di rafforzare le sanzioni contro la Russia, i trader mondiali hanno iniziato a comportarsi come se aspettassero tempi più calmi e hanno iniziato a scommettere su uno scenario di pace non troppo lontano nel tempo, all’interno del quale la resa dell’Ucraina sembra essere esclusa.

 

Una spiegazione, sul lato americano, che viene offerta da molti analisti è questa: gli investitori pensano che la guerra spingerà Jay Powell, presidente della Federal Reserve statunitense, a ritardare i suoi piani per aumentare i tassi, cosa che i mercati si augurano ma che difficilmente accadrà considerando che la Fed da settimane sostiene che bisogna agire “in modo rapido” per combattere l’impennata dell’inflazione e non ha escluso un aumento di 50 punti base a maggio. Una spiegazione, dal lato europeo, potrebbe essere un’altra, e potrebbe essere legata al fatto che l’Europa, rispetto al tema dell’aumento dei prezzi, è consapevole che l’inflazione derivi in buona parte dall’aumento dei prezzi dell’energia e che alla fine se si riuscirà a intervenire sul prezzo del gas si riuscirà anche a governare l’inflazione, ragione per cui i tassi in Europa non dovrebbero aumentare.

 

Un’altra spiegazione, e cioè quella che era stata offerta da un’analisi del Financial Times a fine marzo, che provava ad affrontare il nostro tema, potrebbe essere legata al fatto che, prendendo in considerazione più di cinquanta eventi di crisi realizzatisi negli ultimi cento anni, alla fine dei conti l’indice Dow Jones ha sempre seguito la stessa traiettoria. In questo modo: all’inizio di una crisi, l’indice tende a crollare del 7 per cento; poi rimbalza per guadagnare una media del 4,2 per cento nelle tre settimane successive; e dopo quattro settimane dall’inizio della crisi torna a guadagnare il 9,6 per cento (eccezioni: i mercati non ebbero un rimbalzo duraturo dopo la caduta iniziale quando l’ufficio di JPMorgan fu bombardato nel 1920; dopo lo choc del Canale di Suez del 1956; dopo l’invasione americana di Grenada nel 1983 e dopo l’invasione russa della Georgia nel 2008). “Quando scoppia una guerra – ha scritto il Financial Times – i governi tendono ad attuare maggiori controlli sul commercio e a investire in risorse militari. Questa enorme spesa pubblica significa che i profitti delle imprese sono più facili da prevedere in tempo di guerra poiché i budget sono più prevedibili del libero mercato e la spesa militare può rappresentare una parte significativa dell’indice generale”. A queste spiegazioni occorre però aggiungerne un’altra, forse più suggestiva, che riguarda uno scenario che illumina un percorso non del tutto scoraggiante.

 

Si tratta di uno scenario relativo al nostro futuro e che ci ricorda perché, anche un domani, l’occidente ha le carte in regole per tenere dritta la barra di fronte a Putin. Scenario presto spiegato: l’impatto dell’esclusione della Russia dai mercati sulle economie sviluppate è considerato assolutamente marginale, la dipendenza che ha la Russia dall’occidente è infinitamente superiore rispetto alla dipendenza che ha l’occidente dalla Russia, i mercati hanno perfettamente chiaro che un’economia come quella russa, un po’ più grande della Spagna e più piccola dell’Italia e che da sola rappresenta appena il 2 per cento del pil mondiale, può impattare in modo relativo su un insieme di economie che hanno scelto di dichiarargli una guerra economica che insieme valgono circa il 60 per cento del pil mondiale.

 

E la presenza di una volatilità sui mercati tutto sommato contenuta (guardare per credere la curva dei futures Vix, che è un benchmark che indica le aspettative del rischio di volatilità future dei mercati) è lì a indicare che i mercati scommettono sulla resistenza dell’Ucraina ritenendo che il sostegno militare all’esercito di Zelensky sia il modo migliore per evitare che la guerra possa registrare una escalation ulteriore. La guerra, naturalmente, che secondo l’Ocse contribuirà a tagliare la produzione globale dell’1,1 per cento, può riservare altre sorprese: può contribuire a far entrare molte economie in una fase di recessione, può costringere molti paesi dipendenti dal gas russo a dover rapidamente trovare un modo alternativo per sostenere la propria indipendenza energetica e le stime contenute nell’ultimo bollettino economico di Bankitalia – in caso di un arresto delle forniture energetiche dalla Russia a partire da maggio, il pil italiano, che in uno scenario ottimistico è dato in crescita del 3 per cento, diminuirebbe dello 0,5 sia nel 2022 sia nel 2023 – sono poco incoraggianti.

 

Ma ciò che ci dicono i mercati rispetto alle aspettative della guerra non sembra essere scorretto: proteggere l’Ucraina, oggi, e provare a battere la Russia, significa lavorare per la pace e significa proteggere anche la nostra economia, mettendola al riparo da tutto ciò che potrebbe significare l’affermazione di un criminale di guerra per il futuro della nostra libertà e della nostra democrazia. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.