(foto Ansa)

Gli ultimi tabù no Triv da abbattere per raddoppiare il gas italiano

Maria Carla Sicilia

Per consentire l'estrazione e calmierare le bollette dell'industria, il governo è pronto a delle correzioni che fino a qualche anno fa poche delle forze politiche che supportano l’attuale maggioranza avrebbero avuto il coraggio di fare

I malpensanti suggeriscono che dietro alla pubblicazione del documento che lo scorso venerdì ha sancito la fine della moratoria gialloverde per le attività upstream ci sia il tentativo di mettere i bastoni tra le ruote al raddoppio della produzione di gas su cui lavora il governo Draghi. Perché tra le oltre 300 pagine del Pitesai – acronimo che sta per Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, licenziato dal ministero della Transizione ecologica – sono disseminati dubbi e veti che mal si conciliano con la prospettiva di dare un impulso all’estrazione di gas al largo delle coste italiane. Una prospettiva, anticipata dal Foglio venerdì, di cui si stanno definendo i dettagli in vista di un Consiglio dei ministri da convocare entro la settimana, probabilmente venerdì, come dimostra l’accelerazione impressa da Mario Draghi che ieri mattina ha spostato a Palazzo Chigi la discussione. La lunga riunione si è svolta tra il ministro dell’Economia Daniele Franco e il sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli, insieme i due hanno poi incontrato la direttrice generale di Confindustria, Francesca Mariotti, coinvolta nell’interlocuzione proprio per rappresentare quelle attività industriali più toccate dalla misura.

Estrarre più gas dai giacimenti italiani fa parte di una serie di interventi che serviranno a mitigare l’effetto del rincaro delle bollette. In particolare, la produzione aggiuntiva di gas sarà indirizzata verso i consumatori industriali, i grandi energivori che con la crisi dei prezzi energetici rischiano la chiusura o la delocalizzazione. Ma per ottenere volumi adeguati non basterà probabilmente restare nei perimetri delle regole che ha messo a punto il ministero della Transizione ecologica con il Pitesai, pubblicato dopo tre anni e una proroga. Il testo nasce già vecchio: serviva a gestire un “phase out” dalle fonti fossili che non tiene conto né delle tensioni geopolitiche né dello stato attuale della transizione energetica, probabilmente meno avanzata di quello che ci si aspettava nel 2019.

Il documento illustra un complesso sistema di criteri che definiscono dove e come sarà consentito cercare ed estrarre gas e petrolio in Italia. In controluce, com’è ovvio, il piano individua anche le aree dove non sarà più permesso svolgere questo tipo di attività. Il perimetro di fatto si riduce, adottando una logica coerente all’ottimizzazione dei giacimenti che custodiscono ancora risorse minerarie. A colpo d’occhio l’effetto è chiaro: “In totale – si legge – verranno chiusi definitivamente alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi 540.414 chilometri quadrati di mare, su un totale di 568.976 chilometri quadrati sottoposti a giurisdizione italiana”.

Da una parte il documento spiega chiaramente che gli obiettivi di riduzione della CO2 non significano una conseguente riduzione della produzione nazionale, perché diminuire i volumi di gas italiano non ridurrebbe in alcun modo le emissioni derivanti dal consumo, ma si tradurrebbe semplicemente in un aumento delle importazioni di gas e di prodotti petroliferi dall’estero, con un effetto negativo sull’ambiente e sulle emissioni stesse. Dall’altra però sparpaglia insidie. Per esempio quando, riferendosi alle attività di coltivazione (quelle che consentono la produzione di gas) dice che “è molto improbabile che a seguito della adozione del Pitesai ne partiranno di nuove”. Un limite che mette in discussione la possibilità di raggiungere una produzione di circa 7 miliardi di metri cubi di gas come ragiona di fare il governo Draghi, perché con il potenziamento delle sole attività esistenti, secondo le stime fornite dagli operatori al Mite, si potrebbero ottenere al massimo 1,5-2 miliardi di metri cubi.

Inoltre, se è vero che forse non è indispensabile andare alla ricerca di nuovi giacimenti per ottenere il raddoppio, di sicuro è necessario mettere in produzione quelli in cui è stato trovato il gas dopo l’esplorazione: dunque servirà comunque scavare nuovi pozzi, e vista la mappa delle concessioni nell’offshore adriatico non si può escludere che questi ricadano entro le 12 miglia. Anche in questo caso però la normativa vigente pone un veto che potrebbe essere messo in discussione. Infrangendo un tabù che fino a qualche anno fa poche delle forze politiche che supportano l’attuale maggioranza avrebbero mai avuto il coraggio di infrangere. Sono gli effetti della transizione ecologica. Se oggi si torna a parlare con più lucidità di gas è anche grazie al tentativo affrettato di volerne fare a meno.

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  • Maria Carla Sicilia
  • Nata a Cosenza nel 1988, vive a Roma da più di dieci anni. Ogni anno pensa che andrà via dalla città delle buche e del Colosseo, ma finora ha sempre trovato buoni motivi per restare. Uno di questi è il Foglio, dove ha iniziato a lavorare nel 2017. Oggi si occupa del coordinamento del Foglio.it.