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Il Foglio del weekend

Dalle spiagge alle caserme, l'Italia è ricca ma sciupona

Stefano Cingolani

Terre e palazzi, industrie e armamenti, ospedali e un’infinità di partecipazioni miliardarie come quelle in Eni e in Telecom. La questione del debito pubblico e la “mano morta” ecclesiastica. Radiografia di un patrimonio

Chi sale sull’alto colle, chi entra nel palazzo già fortezza dei papi e poi del re d’Italia, diventa anche presidente della Repubblica Spa. Lungi da noi ogni “economicismo volgare” o la suggestione di considerare uno stato, un paese, una nazione come una fabbrica, un negozio, un’impresa. Non sia mai. Eppure per molti versi è così. Lo è in punta di diritto amministrativo, lo è per la ragioneria dello stato, lo è per i cittadini, per il popolo come per l’élite. Anno dopo anno viene calcolato non solo il bilancio, il dare e l’avere (con il dare sempre maggiore del prendere nonostante le legittime recriminazioni di chi paga fior di tasse, anche perché c’è chi non le paga affatto), ma anche lo stato patrimoniale, quel che rendono le proprietà pubbliche, quelle immobili, le terre, le case, le spiagge, e quelle mobili, cioè i biglietti di banca, i crediti, le azioni detenute nelle società a partecipazione statale e quant’altro. Dunque sì, l’inquilino del Quirinale presiede anche l’azienda Italia, mentre il capo del governo potrebbe essere paragonato a un amministratore delegato.

Ma quanto è ricca, quante sono le sue proprietà? Le vende, le affitta, le mette a frutto per proprio conto? Che cosa è successo nel corso del tempo e cosa accadrà nel prossimo futuro visto che di riffe o di raffe bisognerà riportare il debito monstre (duemila e settecento miliardi di euro) entro limiti più accettabili e gestibili? Proviamo a capirlo con un viaggio a volo d’uccello nella Repubblica come se fosse una società quotata non in una singola borsa, ma in una piazza finanziaria che coincida prima con l’area dove si batte una moneta comune e poi con il mercato mondiale.

 

Prima di entrare, però, nell’arido calcolo del dare e dell’avere, facciamo una piccola digressione per apprezzare una volta tanto Flavio Briatore. In quanto proprietario insieme ad altri di uno dei più lussuosi stabilimenti balneari, il Twiga Beach in Versilia, a Marina di Pietrasanta, ha ammesso che lui paga allo stato scandalosamente poco. Per fare il bagno in piena comodità si spendono da 300 a 1.000 euro al giorno, invece il canone annuo è di appena 17.169 euro. Un prezzo giusto sarebbe oltre centomila euro, ha confessato Briatore al Corriere della Sera. Lui se lo può permettere, si dirà, tanti altri piccoli proprietari no; ma attenti, c’è sempre qualcuno che paga e si chiama contribuente. La parabola del Twiga ci porta diritti dritti alla battaglia delle spiagge e di qui alla meta del nostro cammino, tuttavia non possiamo finire la storia senza averla prima raccontata. Ora che lo spirito del tempo ci bombarda sul ruolo salvifico dello stato, sul ritorno dello stato padrone, dello stato industriale, dello stato salvatore e via via statalizzando, nessuno si fa la più candida delle domande: come mai lo stato non riesce a valorizzare quel che possiede? A questo punto conviene ricominciare da capo.

 

Attivi e passivi

Per calcolare quanto vale l’Italia delle terre e del mattone dobbiamo attenerci alla prima stima compiuta dall’Istat nel 2015 del patrimonio non finanziario: si trattava di 9.600 miliardi di euro, quasi sei volte il prodotto lordo di un anno e grosso modo cinque volte il debito pubblico accumulato finora. Questa cifra si ottiene sommando il valore di abitazioni, immobili non residenziali, ma anche macchinari, mezzi di trasporto, apparecchiature elettroniche (Ict), bestiame, animali, terreni agricoli, prodotti di proprietà intellettuale (software e banche dati). Circa l’88 per cento di tale valore è costituito da immobili: quelli residenziali pesano per circa il 62 per cento e quelli non residenziali per quasi il 26. Gli altri beni di capitale fisso, materiali e immateriali, rappresentano poco più del 9 per cento e i terreni agricoli pesano per circa il 3 per cento del totale. Le famiglie detengono più del 90 per cento del patrimonio residenziale complessivo. Il valore dello stock abitativo è quasi raddoppiato tra il 2001 e il 2011, passando da 3.268 a 6.245 miliardi.

Stiamo parlando di capitale fisso e beni durevoli, a essi si deve aggiungere la ricchezza finanziaria che ammonta a quasi cinquemila miliardi di euro secondo gli ultimi dati. Arriviamo, euro più euro meno, vicino a 15 mila miliardi. Di tutta questa montagna di ricchezza della nazione, nel portafoglio del Tesoro restano circa duemila miliardi tra beni immobili e mobili (come le partecipazioni nelle società industriali e nelle banche), più del pil annuo e meno del debito. Sono produttivi o rappresentano una rendita passiva? Gli immobili in capo allo stato secondo la stima più ampia hanno un valore di circa 500 miliardi di euro. Si tratta in larga parte di vecchi edifici abbandonati o in disuso come caserme, fabbricati destinati a uffici, ospedali, ma anche terreni e armamenti. Solo le abitazioni valgono poco meno di 90 miliardi, un dato leggermente inferiore al picco di oltre 100 miliardi registrato nel 2011. Ancora più alta la valutazione degli immobili non residenziali: ben 256 miliardi di euro. La pandemia ha fatto scendere le quotazioni stimate, anche quelle delle partite mobiliari, ma una riduzione si era manifestata già nel quinquennio 2015-2019.

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Le attività finanziarie di medio-lungo termine comprendono partecipazioni, in prevalenza di tipo azionario (escluse le quote dei fondi comuni di investimento) e crediti rappresentati da “anticipazioni attive” e “altri conti attivi” quali il “fondo ammortamento titoli” e il “valore commerciale dei metalli monetati”. Passo dopo passo lo stato è tornato a essere presente in forze in tutti i settori dell’economia: strade, navi, aerei, difesa, meccanica, elettronica, telecomunicazioni, acciaio, banche, energia, treni, informazione. Si sta per chiudere la vendita della società autostrade dall’Atlantia dei Benetton alla Cassa depositi e prestiti che negli ultimi anni ha esteso ad ampio raggio la sua presenza, dalle costruzioni con Webuild fin negli alberghi di lusso dell’italo-inglese Rocco Forte.

 

La nuova Iri

Quanto pesa e quanto rende lo “stato imprenditore”, si sono chiesti Stefano Caselli e Alessandra Puato sul Corriere della Sera? Le cifre della loro inchiesta risalgono al 2020, ma da allora non ci sono stati miglioramenti significativi. Nell’insieme le aziende che fanno capo al Tesoro valgono 111 miliardi di euro, grosso modo quanto l’Iri, buonanima, il cui attivo ricalcolato equivale oggi a 138 miliardi di euro. E poi c’è la Cassa depositi e prestiti con i suoi 448 miliardi di euro. Anche la Cdp è posseduta dal ministero dell’Economia (per l’83 per cento), ma opera con quattrini presi dal risparmio postale per 265 miliardi, una fonte un tempo inesauribile che negli ultimi due anni ha cominciato a gocciolare. Quindi la Cassa si rivolge al mercato, forte della garanzia dello stato sovrano.

Ma veniamo alla seconda parte della domanda: quanto fruttano le odierne partecipazioni statali? Scrive il Corsera: “Sulle sette grandi quotate (per capitalizzazione) e le nove grandi non quotate (con il metodo dei multipli), le società del Tesoro (fotografia al 20 luglio 2020) hanno prodotto un utile per il ministero dell’Economia che è sceso in un anno del 33 per cento a 4,721 miliardi. E il rendimento, il rapporto fra utile e valore, è crollato del 41 per cento: oggi è al 4,2 per cento. Chiaro il punto: lo stato si espande nel mercato, per effetto comprensibile della crisi, ma la redditività ovviamente non è assicurata”. Le quote più consistenti riguardano l’Enel che è stata a lungo la gallina dalle uova d’oro, così come le Poste, mentre per le Ferrovie non si può dire altrettanto. I governi dell’ultimo decennio, da Mario Monti a Mario Draghi, hanno messo in cantiere nuove privatizzazioni, in realtà bon gré mal gré, hanno comprato molto più di quanto hanno venduto. 

Tra il 1992 e il 2000 gli smobilizzi di imprese pubbliche hanno comportato introiti per circa 198 mila miliardi di lire, di cui 122 mila miliardi per operazioni realizzate direttamente dal Tesoro, 56 mila dall’Iri e 20 mila da Eni, Efim ed altri enti. Privatizzando Telecom Italia e Seat, il Tesoro ha incassato circa 24.500 miliardi di lire. Il percorso è cominciato nel 1992, l’anno in cui la lira è crollata una volta per tutte, e la vendita è proseguita con la vicenda Sme di una lunga serie di aziende tra le quali Cirio, Parmalat e Alitalia. Se si analizzano le privatizzazioni gestite direttamente dal governo, gli introiti netti dal 1994 al 2016 si attestano a 110 miliardi di euro. Non tutto è andato bene madama la marchesa, ma quel che è successo dopo è anche peggio. L’unico anno in cui un governo è riuscito a compiere una privatizzazione superiore ai 18 miliardi è stato il 1999, in cui furono incassati proventi per 22,6 miliardi di euro: vendendo quote in Enel, Unim (patrimonio immobiliare ex-Ina) e Mediocredito centrale. Un caso anomalo si è verificata nel 2003 (capo del governo Silvio Berlusconi, ministro dell’economia Giulio Tremonti), quando i proventi da privatizzazione erano stati pari all’1,2 per cento di pil (quasi 17 miliardi di euro) con la cessione di importanti quote di Enel, Eni, Poste italiane, Ente tabacchi italiani e Cassa depositi e prestiti, per un ammontare di 16,5 miliardi. Dal 2012, nonostante impegni e proclami, sono stati incassati 5,4 miliardi di euro l’anno in meno, pari a circa la metà di quanto previsto. Nella legislatura 2013-2018 non si è andati oltre la cessione del 35,3 per cento di Poste (per incassi pari a 3,1 miliardi) e del 46,6 per cento di Enav (828 milioni). Nel febbraio 2015 i 2,1 miliardi di euro ottenuti dal 5,74 per cento dell’Enel sono finiti nel Fondo di ammortamento dei titoli di stato. Peraltro su Ferrovie lo stop è arrivato proprio dal Pd, oltre che dai sindacati. Quanto al debito pubblico, è passato dal 126 per cento del pil nel 2012 al 134 per cento del 2019. Poi è arrivata la pandemia.

 

Palazzi di carta

Nel 2019 il ministro dell’Economia Giovanni Tria stava lavorando a un piano di ricognizione di immobili di proprietà dello stato e degli enti locali, in particolare caserme, ospedali e uffici pubblici dismessi con l’obiettivo di ricavare almeno 1,8 miliardi di euro. L’indagine doveva chiudersi entro dicembre 2019 per rastrellare risorse in vista della manovra di bilancio. Poi i giallo-verdi hanno lasciato il campo ai rosso-gialli e questi al governo di Mario Draghi, che alla vendita del patrimonio pubblico per risanare i conti dello stato e ridurre il debito non ha mai creduto, secondo i dettami della scuola Bankitalia, al contrario di molti economisti fuori dal mainstream e di alcuni banchieri. L’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università cattolica guidato da Carlo Cottarelli ha ridimensionato a 283 miliardi di euro la stima del patrimonio immobiliare dello stato utilizzabile, ma ben 217 miliardi sono in dote alla pubblica amministrazione per fini istituzionali, residenziali o commerciali. Degli altri, 54 miliardi sono in uso a privati (a titolo gratuito o oneroso) o in ristrutturazione, e 12 sono del tutto inutilizzati. Quindi per rispettare le previsioni del governo si dovrebbe provvedere a un piano di dismissione del patrimonio aggredendo questi ultimi 66 miliardi. Il come e il quando sono appesi al filo dell’incertezza. Sono state già usate le cartolarizzazioni, introdotte quando il ministero dell’Economia era guidato da Giulio Tremonti, un apripista anche su questo plateau. La prima operazione è partita nel novembre 2001 con un trasferimento di immobili per cinque miliardi di euro a una società veicolo chiamata Scip. Era previsto uno sconto del 30 per cento per gli inquilini e il valore di offerta in vendita era pari a circa 3,8 miliardi di euro. L’importo (“prezzo iniziale”) incassato dallo stato è risultato pari a 2,3 miliardi di euro. Nel dicembre 2002 viene avviata l’operazione Scip2 con una offerta pari a 7,8 miliardi su un valore di mercato di 11,1 miliardi di euro. Ma questa volta le cose sono andate meno bene. I dati di bilancio a fine febbraio 2009 esaminati dall’osservatorio di Cottarelli mostrano che delle 62.880 unità immobiliari coinvolte nell’operazione, 24.823 risultavano invendute, per un valore pari a circa 2,2 miliardi di euro. In aggiunta, il versamento a copertura delle passività di Scip2, al netto delle disponibilità liquide, è costato allo stato oltre 1,7 miliardi di euro, andando così ad intaccare il prezzo iniziale e determinando un incasso complessivo pari a soli 4,9 miliardi di euro. In conclusione la Scip1, una volta liquidati i titoli emessi, ha fruttato un utile netto di 1,4 miliardi al Tesoro, Scip2 invece si è chiusa nel 2009 con un costo di 1,7 miliardi, stando alla relazione al Parlamento e alla elaborazione del servizio studi della Camera dei deputati.

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Sulla valorizzazione del patrimonio immobiliare pesano lacci e lacciuoli di varia natura, molti immobili sono proprietà della Difesa (le caserme a esempio), 43 mila risultano gestiti dall’Agenzia del demanio, poi vi sono gli immobili dei comuni soggetti a vincolo urbanistico. Tuttavia idee e proposte frullano nella testa sia di chi deve gestire il mattone di stato, sia di chi deve incatenare a garanzie reali i buoni del Tesoro che, a ogni stormir di fronde, rischiano di scoppiare come palloncini. Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, ha proposto di emettere titoli che abbiano come sottoscrittori sia investitori istituzionali sia famiglie e come sottostante immobili pubblici: “Permetterebbe di alleggerire il bilancio dello stato con un altro effetto importante: avvicinare i cittadini al patrimonio immobiliare locale”, ha dichiarato al Sole 24 Ore. Questi titoli potrebbero poi essere impiegati per investimenti di valore sociale. Anche l’agenzia del demanio guidata da Alessandra dal Verme sta lavorando, con l’aiuto di consulenti finanziari, a vari progetti con un filo conduttore: un fondo immobiliare nel quale collocare anche i beni che ora sono in capo alle aziende a partecipazione statale, a cominciare a quelle locali che possiedono sia aree industriali dismesse, sia capannoni e strutture che potrebbero rifiorire, come dimostrano le operazioni condotte a Milano, un modello da imitare anche se difficile.

 

La guerra di sabbia

A bruciare gli entusiasmi sulla possibilità di mettere a frutto il patrimonio pubblico si staglia davanti a noi l’infinita battaglia delle spiagge, e in generale la battaglia sull’applicazione della direttiva europea (la famigerata Bolkestein). Era il 2006 e la Commissione per la concorrenza era guidata dal liberale olandese Frits Bolkestein, il quale riuscì a far passare un provvedimento anti monopolista e anti nazionalista sulla libera circolazione dei servizi e l’abbattimento delle barriere tra i paesi. L’Italia non l’ha mai condotta in porto, s’è arenata sul bagnasciuga. E sotto gli ombrelloni s’è abbronzato il fronte del no. Circa la metà delle coste sabbiose italiane sono occupate da stabilimenti balneari, una delle quote più alte al mondo. Secondo il dossier stilato da Legambiente, le concessioni sul demanio costiero sono oggi 61.426 contro le 52.619 del 2018. Ma hanno generato nel 2016 solo 101,8 milioni di euro, nel 2019 115 milioni, a fronte però di un fatturato stimato da Nomisma in almeno 15 miliardi di euro. Ad agosto 2021 il canone minimo è aumentato a 2.500 euro, tuttavia dovrebbe assicurare un gettito maggiore di circa 40 milioni di euro.

Il Consiglio di stato ha stabilito che nel 2024 non potranno più essere prorogate le concessioni balneari e il settore dovrà quindi essere aperto alle regole della concorrenza, con aste vere e proprie per assegnare l’uso dei terreni demaniali. Mancano oltre due anni, quindi c’è tempo per qualche nuovo episodio o colpo di scena, in una vicenda che va avanti da sedici anni. Ma i bagnini (o meglio i proprietari degli stabilimenti) sono sul piede di guerra, tanto che la vexata quaestio è stata rinviata anche dal decisionista Draghi. Nessun governo, da Berlusconi in poi, è stato capace, per volontà o per questioni legate a equilibri politici, di rompere il fronte del no guidato oggi dalla destra (Lega e Fratelli d’Italia), ma che attraversa anche la sinistra. Sotto la bandiera di difendere le piccole imprese familiari, si finisce per coprire le super rendite di pochi. Un bene pubblico diventa territorio di pura speculazione, le condizioni delle spiagge non sono migliori che in altri paesi mediterranei e nel resto d’Europa le concessioni sono in media meno onerose in termini di costi fissi e tasse. E’ vero che chi gestisce uno stabilimento, e ha quindi una concessione, va incontro a una serie di svantaggi. Deve pagare l’Imu e anche la tassa sui rifiuti; versa l’Iva al 22 per cento, quando le imprese del turismo hanno l’aliquota dell’11 per cento (in alcuni paesi europei è al 4); e poi ha il servizio di salvataggio a carico, così come i costi per riparare i danni delle mareggiate. Tuttavia le spiagge sono sempre in mano ai soliti, con tutto quello che questo monopolio può generare, a tutti i livelli.

La lobby del mare è vasta e trasversale. A parte Briatore, i cui soci spaziano da Daniela Santanché ai gemelli Soldano e Dimitri Kunz D’Asburgo Lorena, ne fanno parte ex banchieri, alcuni di loro coinvolti in disastri bancari come la Carige di Genova e la Popolare di Lodi: Gabriele Volpi e Gianpiero Fiorani. Poi ci sono vecchie e inossidabili famiglie: Gianluigi e Margherita Campodonico a Santa Margherita, Giuseppe Cinque a Positano, i fratelli Albanese a Capri, i fratelli Vellozzi a Gaeta (ricavi 2019 per 835 mila euro, profitti per 233 mila euro e un canone di 7.259 euro, ha scritto Repubblica), i Carbonelli a Sabaudia. E’ stato pubblicato dai giornali che, secondo il dossier di Legambiente, in Sardegna per la spiaggia Liscia Ruja i proprietari dell’albergo Cala di Volpe (categoria super lusso) pagano un canone annuo di 520 euro. Appena 19 mila euro l’anno vengono incassati dal comune di Arzachena in cambio della firma di ben 59 concessioni. Smobilitare monopoli ingessati, vendere con meccanismi di mercato come le aste, privatizzare, tutto ciò fa parte del “modello neoliberista” per decenni sott’accusa da sinistra, ma che è diventato ormai il bersaglio anche della destra e dei populisti. Il racconto distorto sulle privatizzazioni degli anni 90 (delle quali Mario Draghi è stato un protagonista come direttore generale del Tesoro, soprattutto per quel che riguarda le banche, ma anche più in generale) domina sui mass media e non solo sui social.

 

La mano morta

In un’ampia storia di copertina l’Economist mette in guardia dallo “stato prepotente” sia perché troppo potente sia perché tende a essere autoritario. L’aggettivo usato è bossy, che richiama il boss, il capo, il padrone anche un po’ padrino. Più che un ritorno delle nazionalizzazioni quel che sta avvenendo, complice la pandemia, è la nascita di un “complesso politico-industriale” in cui le imprese hanno bisogno dello stato (sul piano finanziario, normativo, progettuale), e lo stato infila il piede nelle imprese e mette becco sulle loro scelte strategiche. “Questo giornale – conclude il commento di apertura del settimanale britannico il cui azionista principale è John Elkann – crede che lo stato dovrebbe intervenire per far funzionare meglio il mercato, ma il nuovo governo prepotente va ben al di là di questo. I suoi sostenitori sperano che porti prosperità, equità, sicurezza. E’ molto più probabile che si finisca con l’inefficienza, la protezione di interessi acquisiti e l’isolamento, la chiusura in se stessi”. Tirando le fila del caso italiano c’è un’altra raccomandazione da aggiungere: noi crediamo che il mercato debba intervenire per far funzionare meglio lo stato. Così torniamo da dove siamo partiti: il patrimonio pubblico assomiglia alla mano morta ecclesiastica e così ai tre pericoli evocati dall’Economist se ne aggiunge un altro che abbiamo sperimentato in questi anni di ritorno neo statalista e protezionista: l’emarginazione e il declino di un paese ostinatamente attaccato al passato.