Una colonnina di ricarica per auto elettriche a Bergamo (foto LaPresse) 

La guerra dell'energia. Elettrico, gas, nucleare: che transizione sarà?

Annalisa Chirico

Sono ancora incerti i mezzi con cui l’Italia guarda al proprio ecofuturo. Fonti, costi, industria, ricerca: i paladini dell’una e dell’altra tecnologia parlano lingue diverse. Li abbiamo sentiti

Elettrico o non elettrico, gas o non gas? Sono i dilemmi di una transizione energetica che sta già rivoluzionando l’industria italiana ed europea in vista di un obiettivo certo, zero emissioni entro il 2050, ma con mezzi incerti, variegati, differenziati. Mentre l’impennata delle bollette deprime i consumi di famiglie e imprese, l’Europa partorisce la tanto attesa “tassonomia” che include gas e nucleare tra le energie “green”, e il governo italiano accantona l’idea, a rischio di incostituzionalità, di tassare i cosiddetti “extraprofitti” delle aziende energetiche. “In Italia la transizione energetica fa i conti con un forte istinto conservativo – dice al Foglio il professor Nicola Armaroli, dirigente di ricerca presso il Cnr e membro dell’Accademia nazionale delle scienze – Prevale talvolta l’arroccamento sull’esistente, con il rischio di perdere tempo prezioso. Se ci fossimo mossi venti o almeno dieci anni fa, il nostro sistema industriale oggi sarebbe meglio equipaggiato per far fronte ai cambiamenti in atto”.

  

Lei, professore, è stato tra i primi a parlare di rinnovabili e sostenibilità per un “sun-powered future”. La prima obiezione mossa dai detrattori delle rinnovabili è che costano. “Il riscaldamento climatico costa molto di più – replica secco il chimico Armaroli - I danni del climate change si stimano in migliaia di miliardi di euro. La nostra eccessiva dipendenza dall’estero (e questo vale per tutta l’Europa) è un dato di fatto, sia che si parli di gas russo o di metalli per le batterie. E allora che facciamo? Preso atto della situazione attuale, dobbiamo superare le resistenze per dare al sistema paese, in primis al comparto manifatturiero italiano, l’opportunità di innovare e restare competitiva a livello internazionale. Se l’industria italiana resta fuori dai processi di decarbonizzazione in corso, è destinata a soccombere. Le rinnovabili sono manifatturiero (pannelli, aerogeneratori, batterie) e oggigiorno sono sempre più competitive: calano i costi degli impianti mentre la materia prima energetica ha un costo fisso e noto per sempre: zero. I flussi di acqua, sole e vento sono gratuiti. Le tecnologie per lo stoccaggio, che permettono di accumulare energia da utilizzare anche quando il sole non c’è o il vento non soffia, stanno facendo progressi spettacolari. Oggi in Texas, in California, in Australia aumentano ogni giorno grandi sistemi di stoccaggio elettrochimico: ci lavorano anche aziende italiane”.

  

Eppure, anche grazie all’apertura del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, si torna a parlare di nucleare. “Non ha senso perdere tempo a discutere di opzioni completamente fuori mercato da decenni, dobbiamo prendere atto che l’elettrico è il futuro ma anche il presente. Già oggi, oltre il 40 per cento della produzione elettrica italiana è rinnovabile. Dobbiamo installare dieci gigawatt di rinnovabili l’anno da qui al 2030, per liberarci una volta per tutte dai ricatti geopolitici e dalle manovre speculative sui prezzi degli idrocarburi che si ripercuotono sulle bollette dei cittadini. Sul nucleare non c’è nessuna ‘nuova tecnologia’, smettiamo di raccontare sciocchezze. ‘Small nuclear reactors’ e quarta generazione sono studiati da decenni con risultati deludenti, nulla di nuovo sotto il sole. Parlare di nucleare, soprattutto in Italia, è solo tempo sprecato, per moltissime ragioni: non esistono siti, investitori, mercato. Un deposito per le scorie ad alta attività non è mai stato individuato negli Usa, figuriamoci in Italia. Dal 2000 il consumo elettrico mondiale è aumentato del 130 per cento, la quota di nucleare si è quasi dimezzata: è un comparto industriale morto. In Cina hanno fallito tutti i target di installazione, attualmente dispongono di meno di 50 GW. Nel frattempo, solo negli ultimi cinque anni hanno installato 400 GW di rinnovabili. Se l’industria italiana non si converte, sarà catastrofe economica garantita”. 

   
Nell’automotive l’Europa, e l’Italia con una recente decisione del Cite, si muove verso il phase out delle auto con motore endotermico a partire dal 2035. “Come sul nucleare, anche in questo caso io dico: rassegniamoci, vince il libero mercato. Non decidono i governi, l’industria automotive si è già lanciata in tutto il mondo verso l’elettrico perché, semplicemente, è il prodotto migliore. Questa è un’ottima cosa e posso spiegarlo con un numero. Negli ultimi dodici mesi ho percorso con la mia auto elettrica oltre 17 mila km, consumando 2400 kWh, l’equivalente di 250 litri di benzina. È come dire che fa 69 km con un litro. Lei conosce un’auto da 300 cavalli che ha questi consumi? E’ questo il vero motivo per cui non si vede più pubblicità di auto a benzina o diesel: sono superate. Indietro, per fortuna, non si torna”.

   

L’industria della componentistica italiana è insorta. “Non condivido questo istinto conservativo. Domando: a chi venderemo i nostri prodotti se Francia, Germania e Regno Unito hanno preso questa decisione molto prima di noi? Piuttosto evidenzierei un problema: oggigiorno mancano spesso le professionalità. Incontro imprenditori affranti che sono pronti alla transizione ma non trovano competenze sul mercato del lavoro. Dobbiamo investire tantissimo e subito sull’istruzione tecnica, dalle scuole professionali alle università, per dotare il sistema produttivo delle figure necessarie per questa transizione ineludibile”.  

 

E l’idrogeno? L’Italia si candida a essere capofila a livello globale. “Io ritengo che vada considerato esclusivamente quello verde, prodotto da fonti rinnovabili, perché quello che fa ricorso alla Ccs non esiste e non esisterà mai su vasta scala. In generale, penso che l’idrogeno potrà essere utile sul lungo termine, quando avremo grande surplus di elettricità rinnovabile da stoccare in questo vettore. Che dovrà essere utilizzato laddove non esistono alternative più facili ed efficienti come i trasporti pesanti e i settori ‘hard to abate’. Non certo sul trasporto leggero: un’auto a idrogeno verde consuma più del triplo di un’auto a batteria e non esiste una rete di distribuzione e rifornimento. Entrerà a breve nei musei”. 

   
E’ molto più cauta, per evidenti ragioni, Mariarosa Baroni, manager impegnata da quarant’anni nel settore del gas, attuale presidente di Ngv Italy, il Consorzio che dal 1996 raggruppa i principali operatori della produzione e distribuzione di metano e biometano insieme alle aziende della motoristica e componentistica auto. Per intenderci, di Ngv Italy fanno parte big player come Fca, Cnh, Snam, Edison, Gazprom, Cib Biogas. “Il domani non si avvera in un lampo”, dice al Foglio la presidente Baroni, “noi portiamo avanti il principio della neutralità tecnologica: una transizione, per essere equa, non deve penalizzare i cittadini, perciò serve un mix di tecnologie che ci consenta di abbattere le emissioni di CO2 senza scordarci che né l’Italia né l’Europa sono grandi emettitori. Gli inquinatori maggiori al mondo si chiamano Cina e India, paesi che vengono ancora classificati come ‘terzo mondo’ pur rappresentando oggigiorno, per forza economica e industriale, il ‘primo mondo’”.

     

Gli obiettivi europei però sono vincolanti: zero emissioni entro il 2050. “Già quarant’anni fa discutevamo di come investire nella ricerca per eliminare i particolati e tutelare, anzitutto, la salute dei bambini. Noi del gas guardiamo al futuro con occhi aperti e senza preclusioni. Vogliamo costruire l’ecofuturo senza rinunciare però alla crescita e alla concorrenza globale”. Per la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, il gas è il “vettore della transizione”. “E’ esattamente così, noi immaginiamo un futuro che faccia tesoro anche della leadership italiana, internazionalmente riconosciuta, nella produzione e distribuzione di gas naturale liquefatto e compresso, di metano e del biometano. Di fronte alla sfida del cambiamento climatico e della transizione energetica, non esiste un’unica soluzione ma esistono soluzioni diversificate in base agli utilizzi e alle categorie coinvolte. Puntare soltanto su un’unica tecnologia come l’elettrico sarebbe una scelta azzardata dal punto di vista della gestione del rischio. La vulgata secondo la quale decarbonizzazione significa elettrificazione va superata”.

 

Come ha ricordato recentemente l’ad Enel Francesco Starace, l’industria elettrica ha speso quindici miliardi di dollari in quindici anni tentando di trovare la via della Ccs. Perché dovremmo riprovare una cosa che non ha funzionato? “Anche all’idrogeno lavoriamo da più di vent’anni, i progressi tecnologici richiedono tempo e soldi. L’Europa dovrebbe fare mea culpa perché è vero che in questi anni non si sono compiuti progressi ma ciò è anche il risultato dei mancati investimenti e della mancata volontà politica. Gli errori del passato non sono un buon motivo per rinunciare a un mix energetico che contempli più soluzioni, non solo l’elettrico”. 

  
Il Cite ha stabilito che entro il 2035 dovrà avvenire il phase out delle automobili nuove con motore endotermico. Una rivoluzione. “Anche qui i tempi e le modalità rischiano di spiazzare l’Italia e l’Europa nella competizione globale. Con queste tempistiche i nostri produttori di auto semplicemente si sposteranno altrove. La verità è che si parla di elettrico come fosse una religione, nessuno dice che in Cina, il mercato con il maggior numero di veicoli elettrici, la quasi totalità delle auto è alimentata da elettricità prodotta da centrali a carbone. Si parla di rinnovabili senza accennare alla nostra dipendenza dall’Estremo oriente o, meglio, dalla Cina per terre rare e pannelli fotovoltaici. Una Tesla contiene nel suo bagagliaio ottomila batterie e nessuno pretende da loro il life-cycle assessment né ci spiega come saranno gestiti riciclaggio e smaltimento di questa massa ingente di pile elettriche… Ci vorrebbe più pragmatismo, più buon senso”. 

 
Le preoccupazioni sono condivise da Ugo Brachetti Peretti, presidente esecutivo di Italiana Petroli, anche conosciuta come Gruppo Api: “Il divieto al 2035 per le nuove auto con motore endotermico rischia di essere inefficace se l’obiettivo è quello di contenere le emissioni. Guardiamo i numeri: il parco auto è composto da circa quaranta milioni di veicoli. Quest’anno se ne venderanno, di nuovi, meno di un milione e mezzo, di questi solo sessantamila sono elettrici. Se davvero vogliamo diminuire da subito la CO2 emessa nell’aria, non basterà vendere veicoli nuovi. Mentre l’elettrico prende piede, sarà necessario migliorare le emissioni del parco esistente. Si può fare producendo biocarburanti avanzati, sviluppando carburanti sintetici o additivi che fanno emettere meno emissioni a tutti i veicoli. Ma se si decide di vietare i motori a combustione, gli investimenti industriali in queste tecnologie, che hanno un ritorno in periodi lunghi, sono a rischio. E le emissioni del parco circolante non miglioreranno”.

   

Quali rischi vede? “Oltre all’inefficacia dello strumento, vedo almeno quattro problemi: primo, la deindustrializzazione in un settore strategico e altamente produttivo come l’automotive. Secondo, un aumento della dipendenza da paesi extraeuropei: le materie prime per le batterie si trovano in Asia e Africa, e le grandi filiere produttive oggi sono fuori dall’Ue. Il terzo rischio è di carattere sociale: si stimano decine di migliaia di posti di lavoro perduti, ed è errato pensare di compensarli con sussidi pubblici; il lavoro si crea con gli investimenti. Infine, ed è un rischio a cui hanno pensato per ora in pochi, i carburanti che ci si appresta a vietare portano all’erario quasi quaranta miliardi l’anno tra Iva e accise. Come verranno sostituite queste entrate?”.

   

La Norvegia si sta già confrontando con il problema del gettito mancante perché non c’è più benzina da tassare… “E’ una partita perdente anche per lo stato. Se vogliamo davvero tagliare le emissioni dobbiamo lavorare anche sulle tecnologie più diffuse, carburanti e motore a combustione. Ricordandoci una cosa: che se il Vecchio continente ha iniziato da tempo a ridurre le emissioni inquinanti, esistono altre aree del mondo dove la crescita è esponenziale e il legittimo fabbisogno di mobilità sarà colmato con gli idrocarburi. Insieme alla mobilità elettrica, dobbiamo incoraggiare gli investimenti in biocarburanti avanzati, carburanti sintetici, nuovi additivi che migliorano le emissioni. Il divieto al 2035 non incoraggia questi investimenti”.

 
A difendere le ragioni dell’elettrico ci pensa Andrea Zaghi, direttore generale di Elettricità futura, l’organizzazione che con oltre cinquecento imprese rappresenta il 70 per cento del mercato elettrico italiano: “L’elettrico sarà il settore trainante della transizione energetica, rispetto a termico e trasporti ha conosciuto la più elevata incidenza di fonti rinnovabili nel proprio mix, siamo già oltre il 40 percento con prospettive, in base al Green deal, di arrivare al 70 percento entro il 2030.  Il Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima, ndr), varato nel 2020, fissa obiettivi al 2030, per raggiungere i quali dobbiamo installare circa 70 GW di nuova potenza rinnovabile nei prossimi nove anni, di cui 50 GW di fotovoltaico e 13 di eolico. Vuol dire cento miliardi di nuovi investimenti, la metà in impianti di nuova generazione, 25 in impianti di accumulo (pompaggi e batterie elettrochimiche), 25 sulle reti. Questo piano potrebbe portare alla creazione di 90 mila posti di lavoro”. Il Pniec dovrà essere aggiornato? “Sì, è necessario un aggiornamento alla luce delle nuove linee guida che la Commissione europea si appresta a varare con il pacchetto Fit for 55”. 

   

Il problema dello stoccaggio dell’energia. Sole e vento: materie prime a costo zero. L’eccessiva dipendenza da paesi esteri. Detti e contraddetti del governo sulla transizione socialmente sostenibile. Gli effetti sugli equilibri geopolitici

   

Decine di nuovi progetti sono bloccati a causa dei veti del ministero della Cultura, delle Sovrintendenze, dei comitatini locali… come se ne esce? “Registriamo resistenze importanti sul territorio sia per il fenomeno ‘Nimby’ (not in my backyard, ndr) che per l’atteggiamento ‘Nimtoo’ (Not in my term of office, ndr). Le sovrintendenze spesso ostacolano il processo decisionale, pongono veri e propri veti, e la classe politica, per evitare frizioni, rinvia al mandato successivo. Ma queste sono scelte prive di lungimiranza: l’impatto del riscaldamento climatico sarà ben più devastante dell’impatto di impianti che spesso non hanno di per sé alcun connotato negativo o sgradevole rispetto all’ambiente circostante”.  

   

Che cosa risponde a chi dice che l’intermittenza delle rinnovabili ne sconsiglierebbe il ricorso su vasta scala? “Serviranno impianti fotovoltaici che producano di più nelle ore giornaliere per poi stoccare e rilasciare l’energia in eccesso nelle ore notturne, secondo le necessità. Quanto ai costi, le batterie elettrochimiche non hanno conosciuto una riduzione dei costi ma nel giro di qualche anno potremo essere pienamente competitivi. Come ha evidenziato il vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermans, gli alti prezzi dell’energia possono essere un acceleratore per investire di più nelle rinnovabili”. Nel caso di sole e vento, il costo della materia prima è pari a zero. “Esattamente, questo è un grande vantaggio che elimina i problemi, di natura economica, sociale e geopolitica, legati all’eccessiva dipendenza da paesi esteri. Noi non siamo soggetti alla variabilità dei mercati internazionali e allo strapotere dei paesi detentori delle fonti. Le rinnovabili sono distribuite su tutto il territorio nazionale, hanno costi ridotti di manutenzione e gestione degli impianti, e comportano investimenti facilmente programmabili anche a distanza di dieci o vent’anni”. 

  
Il phase out del motore endotermico al 2035 potrebbe dare uno sprint alla diffusione dell’auto elettrica? “Certamente, vediamo una straordinaria opportunità di accelerare l’elettrificazione. Tutti i marchi, a partire da Stellantis, si sono impegnati sulla strada del motore elettrico. E’ un percorso ormai tracciato, irreversibile: nel giro di qualche anno la tecnologia elettrica diventerà dominante. Del resto, già oggi, se consideriamo il ‘total cost of ownership’, l’auto elettrica è competitiva pur in presenza di un costo iniziale di acquisto maggiore”. Sull’idrogeno però la vostra posizione contempla anche quello ‘blu’… “Per noi l’idrogeno è un vettore che potrà aiutare la transizione, la nostra preferenza va alla molecola verde, prodotta da elettrolisi, ma nei prossimi anni un aiuto importante potrà venire anche dall’idrogeno blu, realizzato anche con la Ccs. E’ un vettore che può servire soprattutto a decarbonizzare i settori ‘hard to abate’. Ma per noi la strada principale resta l’elettrificazione”. 

    
Sul tramonto delle auto a motore endotermico a partire dal 2035, lancia l’allarme anche Assopetroli-Assoenergia per bocca del presidente Andrea Rossetti: “La decisione del Cite desta sconcerto non solo nella filiera automotive ma anche nella distribuzione dei carburanti. E’ il capovolgimento di quanto dichiarato dal governo fino al giorno prima. Per mesi l’esecutivo e in particolare i ministri Cingolani e Giorgetti, titolare del Tavolo automotive, si sono detti alla ricerca di una transizione energetica pragmatica e socialmente sostenibile. Questo ribaltamento va nella direzione opposta. Segnala un braccio di ferro all’interno dell’esecutivo in cui sembra prevalere l’approccio ideologico pro-elettrico. Si sceglie di scardinare il principio della neutralità tecnologica e di forzare il mercato non solo con generosi incentivi all’auto elettrica, come è condivisibile in una certa fase, ma imponendo questa tecnologia per editto, a discapito di ogni altra”.

   

Il cambiamento però non si può rinviare sine die. “Con queste modalità e tempistiche è un clamoroso errore che mortifica gli interessi delle industrie nazionali coinvolte, è un vero e proprio suicidio industriale. Decretare così a breve il fine vita del motore termico, per la distribuzione dei carburanti significa bloccare sul nascere gli investimenti in ricerca e sviluppo di biocarburanti e carburanti sintetici liquidi e gassosi, che sono cruciali per la decarbonizzazione dei trasporti e dei settori ‘hard to abate’. Per far decollare gli investimenti questi prodotti non possono essere confinati in una nicchia di mercato, ma devono poter essere impiegati in tutti i settori, quindi anche nella mobilità leggera, in una prospettiva temporale congrua. Al fondo c’è un vizio di metodo, per non dire un trucco. L’impatto carbonico dei veicoli viene calcolato solo sulle emissioni allo scarico (tank to wheel) anziché sull’intero ciclo di vita (life-cycle assessment). La narrativa del motore elettrico ‘zero emission’ si basa su questo.  Per intenderci, è come se volessimo assegnare l’Oscar ad un film di cui abbiamo deciso di vedere solo i titoli di coda. Dell’auto elettrica trascuriamo le emissioni legate alla generazione dell’elettricità che serve ad alimentarla e che, perfino nelle stime più ottimistiche, continuerà per decenni ad essere prodotta in parte con fonti fossili perfino nel virtuoso Occidente. E dimentichiamo che la produzione di batterie è ad alta intensità carbonica, così come lo è l’estrazione mineraria dei suoi componenti metallici”.

  

Perché, secondo voi, la transizione energetica rischia di danneggiare l’economia italiana? “L’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa e vive sulla capacità di trasformare prodotti di base in prodotti finiti, spesso collocati in alta gamma. Ha una base produttiva di pmi che la rende fisiologicamente meno resistente agli shock esterni. Per questo dovremmo, più di altri paesi, difendere le imprese e non azzopparle con costi energetici fuori controllo che si traducono in uno svantaggio competitivo insostenibile. E’ esattamente quello che sta succedendo da mesi con il caro energia, e ciò dipende non solo da fattori congiunturali ma strutturali legati alla transizione, come ha riconosciuto il presidente Mario Draghi nel recente intervento alla Camera. Vedo quindi rafforzarsi due minacce: l’inflazione e il rischio di deindustrializzazione”.

   

Va detto che l’Europa produce soltanto il 7 per cento delle emissioni globali di CO2. “Un ulteriore dato conferma il modesto impatto delle decisioni europee sul bilancio carbonico globale. L’intero parco circolante del continente pesa sulle emissioni totali soltanto per l’1,7 percento. Nella partita della decarbonizzazione l’Europa rischia di ‘auto-sabotarsi’ rispetto a paesi come Cina e India la cui priorità assoluta è la crescita interna. La transizione energetica avrà enormi effetti sugli equilibri geopolitici, sulla ridefinizione delle dipendenze energetiche, sul nostro grado di sovranità”. Insomma, secondo voi, l’Europa penalizzerà le proprie aziende nella competizione globale? “Certamente sì se continuerà nella direzione tracciata dal pacchetto Fit for 55. Rinunceremmo a leadership tecnologiche in settori come il car manufacturing, la raffinazione, l’acciaieria, senza poterle rimpiazzare, se non in minima parte, nei settori cosiddetti ‘green’. Sulla mobilità elettrica la Cina non solo ha già acquisito il controllo delle catene di approvvigionamento dei materiali strategici ma dispone del mercato con la domanda più forte del mondo e un costo dell’energia bassissimo. Soprattutto la Cina, a differenza dell’Europa, considera la conquista del primato nelle tecnologie energetiche come un pilastro della sua proiezione strategica globale”.