I mulini a vento di Consuegra, ritratti da Cervantes nella sua opera “Don Chisciotte” (foto Mick Haupt / Unsplash) 

Traditi dall'energia eolica, non ci resta che il gas

Stefano Cingolani

Che fare se il vento fa i capricci, se il nucleare si spegne e il sole è coperto? Tra crisi politiche e populismo, è necessario avere un piano

Quante le strade che un uomo farà
e quando fermarsi potrà?
Risposta non c’è, o forse chi lo sa
caduta nel vento sarà

Bob Dylan, “Blowin’ in the Wind”, tradotta da Mogol

  
I nuovi mulini a vento alti fino a trenta metri si stagliano in file ordinate distanti duecento passi l’uno dall’altro e dalla riva del mare attraversano i campi di Noordoostpolder in Flevoland. Candidi giganti di cemento e metallo, giganti veri ben più spaventosi di quelli immaginati da don Chisciotte. Con la diga e il tulipano, il mulino a vento è un emblema sullo scudo dell’Olanda da quando le terre basse sono state prosciugate, fertilizzate, popolate, cioè da quando l’uomo ha strappato alla natura la sua propria esistenza. Il polder è una fascia costiera situata sotto il livello dell’alta marea, ma sottratta al mare da opere di bonifica. Noordoost vuol dire nord est. Flevoland è il nome della regione sorta dove si trovava lo Zuiderzee, un ampio golfo lacustre che il geografo Pomponio Mela nel 44 dopo Cristo aveva chiamato Flevo Lacus. Erano in realtà diversi laghi a ridosso del mare finché nel Tredicesimo secolo non vennero travolti dalle onde, creando un golfo nel quale s’incuneavano le gelide tempeste che devastavano le terre circostanti.

 

La peggiore a memoria d’uomo fu nel 1916 mentre imperversava la Grande Guerra. Due anni dopo, terminato il conflitto, gli olandesi avviarono il più grande progetto di ingegneria idraulica della loro storia, uno dei più coraggiosi e per certi versi strabilianti, completato nel 1932. I polder sono nati così, e sui polder troneggiano le grandi pale che attendono il vento come gigantesche braccia protese verso l’avvenire. Solo che questa volta, a cavallo tra l’estate e l’autunno, la loro attesa è stata frustrata. Il vento è scemato, s’è imbizzarrito, ora c’è ora scompare, sembra giocare a nascondino. Quelle enormi eliche rotanti hanno rallentato le loro giravolte e si sono fermate. Da loro proviene il 12 per cento dell’energia elettrica domestica, sembra poco, ma è la quota che garantisce un flusso regolare senza il quale c’è il rischio di black out. Traditi dall’aura del nord, gli olandesi hanno aperto i rubinetti del gas e hanno dato la loro spinta alla febbre dei prezzi che s’è diffusa ormai come un virus economico. Con il rischio che anche la ripresa cada insieme al vento. 

   

Sono quattro i maggiori parchi eolici, ma l’Olanda ha installato anche turbine in mare e altre meno colossali sul suo territorio. La tedesca Siemens, la danese Vestas e l’olandese Lagerwey sono i maggiori fornitori, nessuna dipendenza dunque dalla tecnologia cinese. L’obiettivo entro l’anno prossimo è raggiungere seimila megawatt arrivando a coprire il 16 per cento della produzione di elettricità. Vento permettendo. Perché se Eolo fa i capricci, se il nucleare via via si spegne (l’unica centrale atomica quella di Borssele, un reattore da 482 megawatt, è sotto l’attacco degli ambientalisti), se il sole è coperto da nubi come nella maggior parte dell’anno, non resta che il gas. Si fa presto a dire tutto verde, le rinnovabili sono instabili, ubbidiscono a leggi che l’uomo può modificare solo in parte, per rendere costante l’energia bisogna sempre scendere sotto la crosta terrestre. Per quanto ancora non lo sappiamo, dipende dai tempi, dai modi, dalla portata della transizione energetica. Ma se vogliamo parlare seriamente della impennata nei prezzi del gas e della bolletta elettrica dobbiamo imparare la lezione che viene dai parchi del vento olandesi.

   

Per capire cos’è la globalizzazione si diceva che il battito d’ali di una farfalla in Giappone scatena uno tsunami in Normandia. Ora si può dire che basta un refolo sul mare del Nord per provocare una crisi energetica? Non è la sola causa, sia chiaro. Ci sono i ricatti di Putin. C’è il balzo della domanda schiacciata dalla pandemia. Mancano le scorte, non è stato calcolato che l’attività economica, che la vita per meglio dire, sarebbe ripresa con tale impeto. Persino le criptovalute assorbono quantità enormi di elettricità anche dalle fonti rinnovabili. E c’è l’Asia affamata di energia. Gli Stati Uniti e il Canada sono diventati esportatori di gas liquefatto, l’America è ormai prima al mondo, però le gigantesche navi cisterna che attraversano gli oceani solcano innanzitutto le onde del Pacifico verso l’estremo oriente, dove la richiesta è esplosa sia per la ripresa congiunturale sia per la scarsità di carbone, soprattutto in Cina. Ma senza dubbio una delle ragioni che ha spinto a maggiori consumi di gas, con conseguenti tensioni dei prezzi, è la minore produzione di energia elettrica da eolico.

 

Tutto il nord Europa è stato segnato da un periodo di bonaccia e le centrali a turbogas hanno dovuto compensare, proprio mentre i consumi erano in ascesa. Nel frattempo s’è ridotta anche la produzione interna europea di metano, in particolare nei paesi storicamente produttori, come l’Olanda e l’Italia. Il grande giacimento di Groninga, sviluppato dagli anni Cinquanta da Shell e Exxon, è sostanzialmente in chiusura per problemi di microsismicità che ha sollevato l’opposizione ambientalista, e in un decennio la produzione olandese si è ridotta da 75 a 20 miliardi di metri cubi l’anno. In Italia, dove sono abbondanti le riserve, si va verso l’azzeramento per opposizione politica a ogni tipo di perforazione, sviluppo e ricerca: dal picco di 21 miliardi di metri cubi all’anno nel 1994, si è scesi a tre miliardi di metri cubi, mentre i consumi hanno superato i 70 miliardi di metri cubi. E’ aumentata dunque la dipendenza proprio quando la Russia che fornisce all’Europa circa il 40 per cento del gas consumato, s’è fatta meno affidabile perché il nuovo zar usa le esportazioni di metano come arma politica. Gazprom sostiene che ci sono stati degli impedimenti tecnici, ed è vero, ma l’ostacolo principale si chiama Ucraina.

   

Dalle gigantesche pale olandesi proviene il 12 per cento dell’energia elettrica domestica, la quota che garantisce un flusso regolare

 

Il gas, insomma, è indispensabile ora e per un lungo periodo. Lo è in questa Europa incapace di raggiungere l’indipendenza energetica al contrario degli Stati Uniti. Lo è ancor più in Italia. Il governo si trova di fronte a una scelta difficile: c’è bisogno di aumentare la produzione nazionale sfidando il fronte del No che, pur sconfitto al referendum del 2016, per mancanza di quorum, ha comunque ottenuto il risultato di bloccare tutto. Il ministro Roberto Cingolani recita la parte di un san Sebastiano della transizione energetica: per la sua franchezza e il suo continuo invito a stare con i piedi per terra viene infilzato da sinistra (soprattutto), ma anche da destra. In un saggio pubblicato sull’ultimo numero di Foreign Affairs, Jason Bordoff, consigliere energetico di Barack Obama, ora alla Columbia University, e Meghan O’Sullivan docente alla Harvard Kennedy School, spiegano quanto sia difficile, costoso, doloroso e pieno di incognite anche geopolitiche l’abbandono degli idrocarburi. E’ inevitabile, d’accordo, ma si deve sapere che provocherà un terremoto negli stessi equilibri politici mondiali; il passaggio al nuovo mondo dell’energia va maneggiato con cura e governato con intelligenza e pragmatismo, scegliendo di volta in volta il male minore.

 

La risposta più immediata alle crisi che potranno diventare ricorrenti è aumentare le riserve di metano nei depositi. Lo stoccaggio serve proprio a reagire in tempo reale alle improvvise richieste di gas da parte del mercato, ad assicurare un alto margine di elasticità alla gestione delle strutture produttive e di trasporto, a garantire il mantenimento di riserve “strategiche” per fronteggiare situazioni eccezionali sia di tipo climatico sia di tipo politico come le interruzioni di forniture russe. Considerando il programmato aumento delle rinnovabili – imprevedibili, come dimostra il tradimento del vento nel nord Europa – crescerà l’esigenza di avere un sistema di stoccaggio di gas per far fronte ai momenti in cui non sono disponibili l’energia eolica, quella fotovoltaica (ore notturne, condizioni di scarsa insolazione), quella idroelettrica colpita da ricorrenti siccità, così come per compensare improvvisi cali delle importazioni dall’estero (è già successo con l’energia elettrica proveniente dalle centrali nucleari francesi). Stogit della Snam ed Edison sono le società di stoccaggio più significative, i siti sono più numerosi nel nord Italia dove si concentra la maggiore domanda di gas. 

   

S’è ridotta anche la produzione interna europea di metano, in particolare nei paesi storicamente produttori, come l’Olanda e l’Italia

  

L’impennata dei prezzi è una batosta seria sulle famiglie. Peggio ancora sulle imprese. Sul mercato tutelato il costo standard del metano stabilito dall’Arera, l’autorità garante che l’aggiorna ogni tre mesi, era 0,197 euro a metro cubo nel secondo trimestre dello scorso anno, è arrivato a 0,879 per il trimestre in corso, insomma quattro volte tanto. Interi settori produttivi rischiano di chiudere. La ripresa stessa è minacciata da una fiammata che potrebbe avere conseguenze a macchia d’olio tanto da investire l’intero made in Italy, non solo l’industria pesante, quella che divora più energia. Pensiamo al metallurgico o al cartario, ma persino la produzione della pasta soffre perché manca il cartoncino per gli imballaggi. Gli economisti parlano di input-output ed elaborano complesse tavole intersettoriali. Consumatori privati e pubblici chiedono aiuto al governo, il quale apre la cassetta degli attrezzi assistenziali. Sostegni, sussidi e la parola magica: controllo dei prezzi, la scorciatoia che da Diocleziano a Fidel Castro si è sempre presentata davanti a chi gestisce il potere. Funziona? Prima di rispondere dobbiamo vedere cosa c’è nella bolletta, cominciando dall’elettricità. 

 

La materia prima, insomma l’energia generata dalle centrali, pesa per il 44 per cento; deve essere incanalata e trasportata e questo costa circa un quinto del prezzo finale; arrivano le tasse che incamerano poco più del 13 per cento; poi c’è il colpo gobbo, la spesa pari al 21,8 per cento per gli “oneri di sistema” i quali si dividono a loro volta in due: quelli che servono a sostenere le energie rinnovabili e la cogenerazione, poi tutti gli altri. I primi sono comprensibili, anche se gli incentivi statali dovrebbero essere pagati con le imposte vere e proprie. Ma gli altri che c’entrano? Eccoli qui: costi per smantellare le centrali nucleari; incentivare la produzione da rifiuti non biodegradabili; sostenere le tariffe speciali riconosciute alle Ferrovie dello stato; l’innovazione tecnologica; i clienti disagiati; le imprese elettriche minori; l’efficienza energetica, direttamente o attraverso le industrie; il finanziamento delle compensazioni territoriali. Fino allo scorso anno c’era anche il canone Rai. Nella bolletta del gas la materia prima è sempre attorno al 40 per cento, le tasse arrivano al 35 per cento tra Iva, imposta sul consumo e addizionale regionale. Il resto paga il trasporto, lo stoccaggio, la vendita all’ingrosso e la commercializzazione al dettaglio. La benzina, invece, rasenta l’isteria. Prima arriva il Platts, una piattaforma internazionale sulla quale avviene lo scambio tra domanda e offerta, c’è chi lo chiama il suk petrolifero; poi il margine industriale (cioè quel che guadagna chi distribuisce e vende i prodotti); infine occorre sottostare ai signori delle tasse divisi tra accise e Iva che portano via i due terzi degli incassi. Le accise sono le peggiori, su un prezzo alla pompa di 1,5 euro si prendono 720 centesimi. Per finanziare che cosa? L’elenco è lungo e surreale (tra parentesi l’anno di partenza): la guerra d’Etiopia (1935-1936); la crisi di Suez (1956); il disastro del Vajont (1963); l’alluvione di Firenze (1966); il terremoto del Belice (1968); il terremoto del Friuli (1976); il terremoto dell’Irpinia (1980); la guerra del Libano (1983); la missione in Bosnia (1996); il contratto degli autoferrotranvieri (2004); l’acquisto di autobus ecologici (2005); il terremoto dell’Aquila (2009); la cultura (2011); l’emergenza immigrati dopo la crisi libica (2011); l’alluvione in Liguria e Toscana (2011); il decreto “Salva Italia” (2011); il terremoto in Emilia (2012).

    

Lo stoccaggio serve a reagire in tempo reale alle improvvise richieste di gas da parte del mercato e per fronteggiare situazioni eccezionali 

    

L’insieme di questi oneri impropri contribuisce a far sì che l’energia in Italia, prodotta con le fonti tradizionali o con le nuove, sia più cara che nel resto d’Europa per le famiglie e per le imprese. Il governo ha deciso di intervenire, almeno in parte, stanziando quattro miliardi di euro. Non basterà e non accontenterà nessuno. Ma ecco allora la pioggia di aiuti per i trasporti, la moda, il turismo, lo spettacolo, ricorrendo a ogni espediente dal credito d’imposta sugli affitti alle erogazioni a fondo perduto per il commercio. E l’industria? Sfumata per ora la tassa sugli extra profitti intrisa di propaganda populista, c’è la sterilizzazione degli oneri sociali per meno di un miliardo e mezzo recuperato dalle aste per la vendita della CO2. 

      
Insomma, a Palazzo Chigi e a palazzo Sella gli esperti di Mario Draghi e gli uomini di Daniele Franco ramazzano un po’ qua un po’ là attenti a non sforare i limiti del disavanzo già votati con la legge finanziaria. E’ debito buono o debito cattivo? Lasciamo agli economisti di professione la risposta, in ogni caso anche la mini crisi energetica (mini solo se finirà davvero entro l’estate come stima anche la Banca d’Italia) sarà un onere in più sul bilancio dello stato. In generale, se per allinearci alla media delle bollette europee interveniamo solo a valle, finiamo in un vicolo cieco, con una rincorsa tra prezzi alla fonte e prezzi finali che lascia spazio ampio a manovre speculative.

 

Il calmiere semmai deve agire sull’offerta, quindi a monte, là dove l’energia viene prodotta. Con una operazione verità. In attesa che sole e vento siano meno ballerini, che esista la possibilità di immagazzinare energia da fonti rinnovabili sufficiente a compensare anche le fasi di vuoto, che sia gestibile l’idrogeno, che i semidei del Ventunesimo secolo riescano a imitare il sole, ci sono solo due strade: o giriamo la chiavetta e riapriamo le centrali nucleari (operazione tecnicamente difficile e politicamente impossibile) oppure la nostra fonte privilegiata resta il gas, che va considerato una risorsa strategica e come tale gestito e protetto. Il metano ci dà una mano, ma solo se noi per primi gliela diamo.