(foto Ansa)

E' ora di guardare alla realtà: il Rdc non aiuta a trovare lavoro

Luigi Olivieri

I dati dicono che gli aiuti generalizzati non funzionano. Il problema della formazione e l’assenza di vere politiche attive

Differenziare il sostegno al reddito a fini solidaristici, da aiuti, anche economici ma mirati, alla ricerca attiva di lavoro pare la strada per rendere efficace il Reddito di cittadinanza (Rdc) ed eliminare i difetti che lo avviluppano. Le parole del premier, Mario Draghi, di piena condivisione del concetto che sta alla base della misura, hanno aperto nuovamente il dibattito (per la verità mai sopito) sullo strumento attivato nel 2019. La piena condivisione sulla filosofia, non esime certo dall’evidenziare i problemi operativi che hanno fin qui caratterizzato il Rdc, allo scopo di immaginare costruttivamente i correttivi utili a rendere lo strumento più efficace.
Lo strumento è contemporaneamente dedicato sia a persone con particolari fragilità di carattere socioeconomico, sia a persone disoccupate, potenzialmente occupabili.

Queste platee, tuttavia, non coincidono tra di loro e da qui scatta il fondamentale problema dell’intero sistema. Il Rdc sta funzionando abbastanza nei confronti di chi non sia profilato come spendibile nel mercato del lavoro e, quindi, è preso in carico dai servizi sociali dei comuni, sulla base di un patto di inclusione sociale. Per questa parte, il sistema appare abbastanza simile al Rei, che ha sostituito. Non altrettanto vale, invece, per la restante parte, rivolta a chi sia profilato come potenzialmente occupabile: il Rdc come strumento per reperire lavoro non si dimostra particolarmente efficace. Le ragioni, pur essendo facilmente prevedibili sin dall’inizio, sono oggi meglio comprensibili dai dati mostrati dall’Inps nel suo rapporto annuale. I nuclei familiari beneficiari sono 1,6 milioni per un totale di 3,7 milioni di persone coinvolte. Ma, proprio perché come rilevato prima, le platee sono disomogenee, la ricerca attiva di lavoro di fatto non riguarda quasi i tre quarti dei beneficiari.

Infatti, si stima che nei nuclei beneficiari siano presenti 1.350 minori, che ovviamente non sono occupabili, né tenuti alla ricerca attiva di lavoro. Altri 450.000 beneficiari sono disabili. Nessuno tra questi è obbligato a cercare occupazione con lo strumento del Rdc: alcuni perché, se idonei al lavoro, seguono le regole dell’inserimento lavorativo mirato previste dalla legge 68/1999; gli altri, perché la loro condizione di disabilità non consente di svolgere attività lavorativa.

Restano quindi 1,9 milioni di beneficiari: circa la metà è proprio la platea profilata come lontana dal mercato del lavoro, della quale debbono curarsi i servizi sociali dei comuni. Centri per l’impiego e navigator si prendono in carico poco meno di un milione di beneficiari e solo poco più di un quarto dei beneficiari può realmente aspirare a un lavoro. Ma a ben vedere l’inserimento lavorativo dei beneficiari potenzialmente occupabili risulta tutt’altro che semplice. Inefficienza dei centri per l’impiego e dei navigator? Al di là delle carenze strutturali e organizzative del sistema (comunque con 10 volte meno addetti rispetto alla Germania, che vanta quasi 100.000 operatori nei suoi servizi per il lavoro pubblici), a ben vedere anche i beneficiari profilati come potenzialmente avviabili al lavoro, nella realtà sono a loro volta ben lontani da una loro immediata spendibilità.
 

Oltre il 72 per cento dei beneficiari del reddito di cittadinanza ha la terza media

 

L’Inps nel suo rapporto annuale sottolinea che due terzi dei beneficiari nel 2018/19 erano totalmente estranei al mercato del lavoro e non avevano mai lavorato. Ma, non basta: l’Anpal, nella nota periodica sul Rdc dell’aprile 2021 segnala che oltre il 72 per cento dei beneficiari a livello nazionale presenta un titolo di istruzione di livello non superiore all’istruzione secondaria di primo grado (la terza media) e solo il 2,7 per cento dell’utenza ha un titolo post diploma

Avviare alle imprese persone senza alcuna esperienza lavorativa e con un tasso di formazione e scolarizzazione oggettivamente molto basso è, dunque, non tanto impossibile, quanto velleitario. Sebbene in questi mesi molte voci di imprenditori si sono sollevate per evidenziare la difficoltà a reperire lavoratori, addebitandola al Rdc, anche se i Centri per l’impiego e i navigator avessero indirizzato verso le aziende lavoratori così poco qualificati ben difficilmente per loro si sarebbero aperte le porte verso l’occupazione. E’ allora necessario riordinare il sistema. Tornare all’idea del Reddito di inclusione (Rei) per la platea di persone che mostra solo necessità di inclusione sociale e di sostegno al reddito.

Per quanto concerne il lavoro, è opportuno rinunciare all’idea di una misura generalizzata di attribuzione di un reddito e puntare, invece, su politiche attive reali. Le quali altro non sono se non risorse pubblico-private destinate a finanziare strumenti di ricerca attiva. L’assegno di ricollocazione è una politica attiva vera, ma adeguata a chi abbia perso il lavoro da poco e disponga di sufficiente esperienza pregressa.
Per persone con titoli di studio poco spendibili e nessuna esperienza pregressa, occorrono misure diverse, con tempi e risorse maggiori. Occorre che i centri per l’impiego possano incrociare veramente e con semplicità le proprie banche dati con quelle di Inps, anagrafe, scuole e università, per intercettare non solo chi volontariamente si dichiari disoccupato, ma anche chi non abbia mai lavorato o non lavori da molto tempo, né disponga di validi titoli spendibili. Nei confronti di costoro va costruito una politica in più fasi. Una prima, rivolta a riconsiderare la situazione occupazionale e sociale; una seconda, fondamentale, finalizzata a ricostruire competenze e abilità con accesso a corsi di formazione per adulti, progettati con le imprese in modo da creare, anche utilizzando adeguatamente tirocini e apprendistato, le figure professionali necessari. La terza fase è quella della materiale ricerca del lavoro. Ma scuola e università dovranno prima o poi rivedere con le imprese i propri programmi, per creare una formazione e una cultura di cittadinanza, prima ancora che un Reddito di cittadinanza.

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