(foto Ansa)

I numeri dicono che il Reddito di cittadinanza continua a essere un fallimento

Luca Roberto

La disfatta delle politiche attive: il 70 per cento non cerca lavoro tramite i navigator. E l'assegno di ricollocazione raggiunge una fetta marginale dei percettori

Meno di un terzo dei beneficiari del Reddito di cittadinanza ha sottoscritto lo strumento attraverso cui è presumibile trovi un'occupazione, e cioè il "patto per il lavoro". Lo si evince dall'ultimo monitoraggio dell'Anpal sulla misura bandiera di contrasto alla povertà introdotta all'epoca del governo gialloverde, e da lì in poi sempre prorogata, in ultimo dall'attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando. Secondo il documento dell'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, ad aprile erano 1.656.389 i beneficiari del Reddito, oltre un milione dei quali localizzati al sud e nelle isole. Ebbene, del milione e passa di soggetti che potrebbero sottoscrivere il patto per il lavoro - che poi è l'attività principale per cui sono stati assunti i famosi navigator -, lo ha fatto solo il 31 per cento. Lo scorso anno, al primo monitoraggio di Anpal, la quota parte di chi aveva avuto accesso al colloquio per la ricerca di un lavoro era del 44 per cento. È certo che un peso ce l'abbia avuto la pandemia, che nel frattempo ha trascinato l'economia europea in una recessione. Ma da una misura che non ha mai particolarmente brillato per efficienza e risultati, era comunque lecito aspettarsi di qualcosa di diverso. È normale che uno strumento che era stato introdotto con il preciso intento di stimolare la ricerca di un lavoro riesca a intercettare un numero e una percentuale così limitata di utenti? 

Ma c'è di più. Perché spulciando nelle pieghe del monitoraggio, si scopre che il reddito di cittadinanza ha fallito anche laddove sarebbe servito a riaccompagnare le persone in un percorso di formazione lavorativa. "Centrali sono le politiche attive del lavoro. Affinché esse siano immediatamente operative è necessario migliorare gli strumenti esistenti, come l’assegno di riallocazione, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati", disse il presidente del Consiglio Mario Draghi nel discorso d'insediamento alle Camere lo scorso febbraio. Lasciando intuire che il governo stava pensando a una nuova forma di incentivo al lavoro, sotto forma di bonus che potessero arrivare fino a 5mila euro. Chissà cosa direbbe del dato impietoso che mostra come al 1° aprile i soggetti beneficiari dell'assegno di ricollocazione - che prima era erogato ai percettori della Naspi da almeno quattro mesi e dal 2018 è stato ricompreso nelle specifiche del Reddito -, erano 969. Su una platea di oltre un milione e 600 mila soggetti. Meno dell'uno per cento. E non è tutto. Perché di questi, ne risultavano attivati circa la metà (423) dopo l'effettuazione del primo colloquio presso un Centro per l'impiego. C'è da dire poi che non è detto che tutti i percettori dell'assegno di ricollocazione abbiano ancora diritto al Reddito di cittadinanza. Se si va ad approfondire il dato, in effetti, si scopre che tra i sottoscrittori del patto per il lavoro, coloro che usufruiscono dell'assegno di ricollocazione e hanno svolto almeno un colloquio presso i centri per l'impiego sono 266 soggetti. Un numero talmente irrisorio da porre seri interrogativi sul futuro di uno strumento che nell'emergenza pandemica ha rappresentato un'innegabile appiglio per le famiglie in difficoltà economica. Ma che sul fronte delle politiche attive continua a fallire su tutta la linea. 

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