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L'appello che serve

Vere battaglie per i prof. anti liberisti: occuparsi di come lo stato gestisce della spesa

Guglielmo Barone

Criticare la task force perché avversa all'intervento pubblico è un argomento che manca il bersaglio: la variabile chiave del successo del Pnrr sarà attorno alle riforme che lo accompagnano

Vorrei prendere spunto dall’appello pubblicato da il Domani contro il gruppo di economisti che avranno l’incarico di supportare la presidenza del Consiglio dei ministri nella valutazione degli investimenti del Pnrr. La petizione è a firma di diversi accademici e ha avuto l’appoggio anche da parte di esponenti politici di sinistra quali il vicesegretario del Pd Peppe Provenzano e l’ex pentastellato Lorenzo Fioramonti. L’accusa è che il team prescelto mostrerebbe una composizione per genere e area geografica poco omogenea, competenze tecniche talora dubbie, scetticismo aprioristico sull’intervento pubblico in economia, riduzionismo sulla questione meridionale. Vorrei qui spendere solo qualche parola in difesa della task force per poi passare al tema, collegato, della qualità della pubblica amministrazione.

 

Premetto una nota personale: della task force conosco personalmente Marco Percoco e Carlo Stagnaro, professionisti competenti, affidabili e pragmatici. Più in generale, criticare la task force perché pregiudizialmente avversa all’intervento pubblico è un argomento che manca il bersaglio. Il tema oggi non è se iniettare i 200 miliardi del Pnrr nell’economia italiana ma come farlo al meglio. E da questo punto di vista, un eventuale scetticismo ex ante aiuterebbe semmai a tenere lontano il problema del confirmation bias già denunciato da Popper, cioè il cattivo atteggiamento del ricercatore che cerca solo l’evidenza coerente con le proprie convinzioni pre empiriche.

 

La denuncia della pervasiva ideologia neoliberista è anch’essa molto debole e denota poco aggiornamento sulla professione degli economisti, che da decenni mostrano un enorme eclettismo nei metodi, nelle domande di ricerca, nel linguaggio. Su di un piano meno accademico, non ha poi molto senso essere ideologicamente a favore o contro l’intervento pubblico. Più semplicemente, un forte intervento pubblico è un bene prezioso che una società deve però potersi permettere: richiede uno stato molto forte che faccia sì che ogni euro raccolto con la tassazione si trasformi in un euro di buona spesa pubblica, senza perdite in rivoli di inefficienza, clientelismo e corruzione. Senza questa condizione, cresce solo la disuguaglianza, proprio quella disuguaglianza che la mano pubblica voleva contrastare.

 

Chiediamoci allora: in Italia abbiamo uno stato sufficientemente forte? Questo ci porta al secondo punto. Il Pnrr è un programma di forte incremento di spesa pubblica che si innesta su di un’economia sfibrata da un trentennio di crescita stagnante e dall’assenza delle riforme strutturali necessarie; inoltre, non è mai nata nell’opinione pubblica una constituency a favore della crescita economica. Non è un caso che nel decennio che termina nel 2019, l’Italia sia cresciuta in media dello 0,2 per cento all’anno, a fronte dell’1,9 per cento della Germania e dell’1,4 per cento della Francia e della media dell’area dell’euro. Un gap abissale. Adesso l’Europa supporta un forte piano di investimenti pubblici, il più ampio del continente, chiedendo in cambio alcune riforme su Pa, giustizia, semplificazione, concorrenza, fisco. Memori del fallimento dell’intervento per il Sud Italia, dovremmo avere ben chiaro che una variabile chiave del successo dell’operazione è la qualità della macchina pubblica che dovrà attuare il Piano.

 

Su questo punto, tutti gli indicatori disponibili mostrano per l’Italia un ampio ritardo rispetto ad altri paesi comparabili, pur tenendo conto delle doverose cautele legate alle difficoltà di misurazione e comparazione internazionale. Un settore pubblico inefficace e inefficiente non mina solo la produttività delle imprese (e, quindi, i salari dei lavoratori) e la qualità dei servizi offerti ai cittadini a tutela dei loro diritti fondamentali (istruzione, sanità), con conseguenze distributive molto pesanti. La bassa qualità rende anche più difficile attuare riforme volte a migliorare la qualità stessa, generando così un circolo vizioso nel quale rischiamo oggi di impantanarci.

 

Siamo a una curva molto pericolosa della storia economia italiana: non potremo permetterci un debito pubblico che già adesso sfiora il 160 per cento del pil (un livello raggiunto prima d’ora solo alla fine del primo conflitto mondiale) senza fare uno scatto sulla crescita potenziale di lungo periodo dell’economia, e questo non può che derivare da una buona attuazione del Piano, non di certo dal moltiplicatore della spesa pubblica che può influenzare solo il ciclo economico nel breve termine. In un mondo che cambia a una velocità molto alta, una macchina pubblica molto migliore dell’attuale è e sarà una condizione necessaria se vorremo provare a mantenere il welfare state che ci siamo giustamente regalati nel novecento. Suggerimenti, non richiesti, per il prossimo, accorato, appello pubblico da sinistra.

 

Guglielmo Barone
Università di Bologna

 

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