Foto Donato Fasano - LaPresse

E adesso il destino dell'ex Ilva è nelle mani del Consiglio di stato

Annarita Digiorgio

Chiudere o no: a giorni  la sentenza. Ultimo paradosso: la copertura dei parchi minerali  interrotta sul traguardo

Chiuso il primo grado del processo penale Ilva, che riguarda l’avvelenamento dei mitili del Mar Piccolo e delle pecore che improvvidamente brucavano sotto lo stabilimento, e che sospende la confisca dell’area a caldo (sotto sequestro e in mano a un custode giudiziario dal 2012) fino alla sentenza definitiva, la decisione sulla chiusura del siderurgico è ora nelle mani del Consiglio di stato. E’ attesa a giorni la sentenza sul ricorso presentato da ArcelorMittal insieme a Ilva in amministrazione straordinaria e ministero dell’Ambiente, contro la decisione del Tar di Lecce che accoglieva l’ordinanza “contingibile e urgente” di spegnimento degli impianti emanata dal sindaco di Taranto a febbraio 2020. Contingibilità e urgenza che, fossero state reali, a distanza di un anno avrebbero già comportato una strage. Invece l’ultimo operaio morto a Taranto, meno di un mese fa, Natalino Albano, lavorava al porto e trasportava pale eoliche, e siccome non era dipendente Ilva non ne ha parlato neppure Sabrina Ferilli. Tantomeno il presidente nazionale di Legambiente che accusa la soprintendenza e il ministro Franceschini di aver bloccato l’eolico near shore di Taranto, senza sapere che è invece in costruzione e gli operai ci muoiono sotto.

 

Indipendentemente dai tribunali, ci permettiamo di dare un consiglio alla nuova Acciaierie d’Italia, l’unico che potrà ridare slancio all’azienda: ripartire immediatamente con tutti i lavori dei piani industriale e ambientale. Quelli che dal 2012 sono l’unica legge che tiene in piedi lo stabilimento.  A cominciare dal più importante: la copertura dei parchi minerali. Che a differenza di quanto si può pensare dalle immagini pazzesche delle cupole che sovrastano l’area, non è ancora completa. E ne manca davvero un pezzetto: il 5 per cento. Che però è quello che impedisce di trattenere il minerale, continuando a spargerlo sulla città colorandola di rosso.

 

Abbiamo visto tutti le immagini che a ogni “wind day”, i famosi giorni di tramontana, creano vortici di polvere rossa. L’ultima volta persino Luigi di Maio le ha condivise sui social, con il solito meme acchiappa like a buon mercato sulla pelle dei tarantini. L’unico modo per evitare lo spolverio del minerale, che negli ha fatto diventare rosso tutto il quartiere Tamburi, è coprire quelle collinette di minerale. E’ stato fatto. L’opera irrealizzabile è stata realizzata. Manca solo un cinque per cento, una finestrella, che se non viene chiusa consente al minerale di continuare a fuoriuscire posandosi sui balconi (ma non viene respirato, non essendo composto di polveri sottili). Questo per una decisione dell’azienda, che ha bloccato i lavori. Eppure nessuno di parte politica, né il sindaco di Taranto che emana ordinanze e vuole chiudere l’area a caldo, né il presidente della regione Emiliano, che la vuole un giorno chiusa e un giorno decarbonizzata, né i Cinque stelle che volevano il parco acquatico, né il Pd che la vuole Green (senza dire come), hanno mai detto nulla per denunciare lo scandalo, imprenditoriale e ambientale, di questa opera incompiuta. Ma siamo certi che al prossimo wind day condivideranno le foto di polvere rossa sui social. Fanno sempre così. Come dopo i morti sul lavoro.

 

Dell’opera di copertura dei parchi minerali si parla sin dagli anni 70, perché lo spolverio dalle collinette del minerale c’è sempre stato, nonostante proprio in quegli anni e in quelli a seguire siano state costruite le scuole e si sia continuato ad ampliare il quartiere insieme alla fabbrica. Cingolani si stupisce che negli anni passati non si sia pensato, come si fa in molti quartieri borderline, di spostare le palazzine più a ridosso dei camini. In realtà se ne parla dagli anni 2000: un’idea dell’allora sindaco Di Bello è stata interamente finanziata da Renzi con il miliardo messo dal suo governo nel contratto istituzionale di sviluppo, ma poi è stata bloccata dall’attuale sindaco e dal sottosegretario Turco durante il Conte 2.

 

I Riva avevano sempre detto che la copertura dei parchi minerali non si poteva fare, perché, in effetti, non esistono al mondo parchi siderurgici di quella grandezza coperti. Nel 2012 le cupole furono inserite come prescrizione obbligatoria dell’autorizzazione ambientale concessa da Corrado Clini, senza la quale la fabbrica non era autorizzata a produrre (decadendo facoltà d’uso). Dovevano farle i Riva, ma dopo il sequestro degli 8 miliardi da parte della procura, il governo Letta decise di espropriarli della fabbrica. Diventato ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando istituì un comitato di tre esperti per la realizzazione di un piano ambientale che recepisse quanto indicato nella nuova Aia. Quel piano, aperto alle osservazioni di comitati, istituzioni e agenzie di controllo, fu approvato per decreto del presidente del Consiglio il 14 marzo 2014 e dopo aver ricevuto il parere favorevole da parte della Corte dei conti divenne la legge miliare che, ancora oggi, regola la produzione e la tutela ambientale e sanitaria dello stabilimento Ilva. Per realizzarlo venne inventato il commissariamento ambientale, che espropriò la fabbrica ai Riva. Anche se ad attuarlo saranno solo i privati quando verrà acquistata da ArcelorMittal.
L’appalto delle coperture fu assegnato dal commissario Bondi tramite gara all’azienda Cimolai di Pordenone. Un’eccellenza italiana. I cantieri sarebbero dovuti partire nel 2014 e il progetto finale si sarebbe dovuto completare entro il 3 agosto del 2016. I lavori in realtà non partirono mai, e a ogni scadenza intermedia veniva votato un nuovo decreto di proroga. Il motivo è chiaro: i commissari non pagavano dazio, le tasche degli italiani sì. E per non inquinare, anziché compiere le opere ambientali il governo preferì dimezzare la produzione.

 

Finché nel 2017 arrivò Carlo Calenda, indisse la gara e vendette Ilva, obbligando l’acquirente ad attuare finalmente quel piano. Il mantenimento del progetto della copertura dei parchi così come era stato progettato fu uno dei motivi che fecero propendere per l’assegnazione ad ArcelorMittal. La concorrente Accitalia (il nome ricorda l’attuale Acciaierie D’Italia, con cui ha in comune l’amministratore delegato Lucia Morselli) aveva presentato un suo piano di copertura, il che avrebbe comportato  perdere altro tempo per rifare l’iter burocratico.

 

Calenda prima di firmare il contratto prese una decisione coraggiosa e inaspettata: per la prima volta impose ai Commissari di avviare la costruzione delle cupole: “L’amministrazione straordinaria si avvarrà temporaneamente delle risorse rinvenienti dal prestito obbligazionario (i fondi della transazione Riva) e le spese sostenute formeranno oggetto di rimborso da parte di Am Investco entro 90 giorni dal perfezionamento dell’operazione. La copertura sarà in due fasi: 24 mesi da oggi per il parco minerali e avvio dal 30 giugno prossimo per il parco fossile. Il cantiere odierno parte con otto mesi di anticipo sul previsto e i lavori saranno eseguiti in 24 mesi anziché in 36”.

 

Quindi Calenda non solo decise di avviare i lavori, ma ne anticipò la realizzazione riducendo di un anno anche i tempi di costruzione e consegna. Bisognava recuperare il tempo perduto fino a quel momento. La notizia arrivò pochi giorni dopo che il presidente Emiliano aveva diffuso su Facebook un fotomontaggio di un bambino con la maschera antigas sulle collinette di minerale, e che il sindaco di Taranto impugnò al Tar il piano ambientale. Mentre gli altri avvelenavano i pozzi, Calenda fece per la prima volta una cosa concreta e immediata, impensabile fino a quel momento, per risolvere il problema ambientale di Taranto.

 

Il mastodontico progetto fa leva su una manodopera di 200 operai al giorno, 60 mila tonnellate di acciaio, 200 mila metri cubi di calcestruzzo, 10 mila tonnellate di armature e 24 mila metri di pali di fondazione, per un totale di 700 mila metri quadrati di copertura di una superficie equivalente a 28 campi da calcio per 80 metri di altezza. Per un investimento di 400 milioni.

 

Il 31 gennaio 2018 Cimolai iniziò i lavori, trasferendo le sue maestranze e prendendo le migliori del territorio, tra cui la top player italiana Paul Wurth. Lavori ininterrotti, notte e giorno. Emozionanti le immagini degli arrampicatori speciali sulle cupole. Efficienza, rapidità, ingegneria e maestranze. Cimolai si dimostrò davvero un’eccellenza italiana. Il 5 aprile 2019 ArcelorMittal annunciava che con 10 giorni di anticipo era stato completato il terzo arco della copertura del parco minerale. Poi qualcosa è andato storto. Lo scorso ottobre Cimolai è stata sentita in audizione davanti alla commissione Attività produttive della Camera, e ha ammesso di avanzare un credito importante verso la multinazionale, con ingenti pagamenti arretrati non coperti. A quel punto ArcelorMittal ha chiesto all’azienda di lasciare il cantiere, senza finire i lavori. Proprio quando erano praticamente già finiti.

 

Il 25 novembre 2020 Arcelor ha inviato a Cimolai una lettera di recesso del contratto. La Cimolai ha risposto specificando “di aver eseguito correttamente le opere a essa affidate – ossia il 99,5 per cento del Parco Minerale e il 96 per cento del Parco Fossile – senza alcuna contestazione dei lavori”.

 

Sgombrato il cantiere senza poter completare l’opera, l’ingegner Luigi Cimolai di suo pugno ha scritto al sindaco di Taranto e al presidente della regione: “Nella settantenne storia della Cimolai mai è accaduto che fosse stata lasciata incompiuta un’opera a essa affidata, e l’etica d’impresa che ci contraddistingue ci obbliga a considerare moralmente operativo il proseguimento dell’obiettivo della salvaguardia della salute e la tutela della qualità della vita dei cittadini di Taranto”. Nessuna risposta è arrivata alla Cimolai né dal sindaco, né dal presidente Emiliano, né dal governo o dal Parlamento. Una delle aziende italiane più apprezzata nel mondo (tra i suoi lavori la  stazione Ground Zero sorta al posto delle Torri gemelle a New York, il sarcofago di Chernobyl, le paratoie del canale di Panama), che stava finendo a Taranto un’opera di straordinaria importanza ambientale e strutturale, è stata lasciata scappare nel totale silenzio dell’opinione pubblica che oggi torna parlare di lavoro e salute. Accolto il ricorso dal Consiglio di Stato, e garantita la continuità degli impianti, è indispensabile che l’azienda completi quella copertura e ripristini tutti gli impegni industriali e ambientali sul territorio.

 

E mentre Cingolani e Draghi metteranno a gara i nuovi progetti del Pnrr per l’hard-to-abate, l’impegno da mantenere per Ilva è ancora quello imposto dall’Aia (autorizzazione integrata ambientale) del 2012 (in attesa di riesame) e dalla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) nel 2018: il rispetto della legge vigente, che consiste nell’applicazione del piano ambientale e industriale attuale. Solo così la nuova Ilva si può salvare, lontano dai tribunali, in un momento di grande richiesta di acciaio: investire in capex per risanare gli impianti, attuare le prescrizioni ambientali esistenti, tornare a sfornare il miglior acciaio europeo, aumentare la produzione fino a raggiungere il break even point, riposizionarsi sul mercato, far crescere lavoro e sviluppo, far tornare l’Italia tra i leader mondiali della siderurgia. E in attesa della Carbon capture, chiamare A2a per recuperare almeno energia per il teleriscaldamento, come le acciaierie di Brescia fanno da vent’anni. Sempre che, anziché revampare afo5, il più grande altoforno d’Europa, con le moderne tecnologie, ora che i parchi di Taranto sono gli unici al mondo coperti, non si preferisca usare le cupole come scivoli acrobatici e ombra per il parco.
 

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