tra roma e taranto

L'incognita sull'Ilva mette a rischio il Recovery, e anche Conte

Valerio Valentini

I due miliardi per la decarbonizzazione nel Pnrr e le decine di progetti da ripianificare se il Consiglio di stato chiude l'area a caldo. E intanto nel M5s parte la gazzarra: il fedelissimo dell'ex premier se la prende con Draghi. I sospetti su Arcuri

Che lo stabilimento di Taranto possa chiudere, con buona pace delle frange dell’oltranzismo grillino, nessuno al governo lo prende neppure in considerazione. E non solo perché tra i molti consiglieri di stato che  tengono in piedi la baracca dell’esecutivo tra Palazzo Chigi e gli uffici legislativi dei ministeri, quasi tutti confidano nella ragionevolezza dei loro colleghi giudici che tra qualche giorno saranno chiamati a esprimersi sulla sentenza emessa a febbraio dal Tar di Lecce che imporrebbe lo spegnimento immediato dell’area a caldo. Il problema, più banalmente, è che lo smantellamento dell’ex Ilva avrebbe un impatto dirompente anche sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

 

Le ricadute sarebbero direttamente misurabili in circa due miliardi: quelli che il piano di riforme del governo intende destinare all’utilizzo dell’idrogeno per conversione degli impianti nell’ambito del Recovery. Ma poi, con ripercussioni quasi impossibili da stimare, l’eventuale chiusura dell’ex Ilva e la conseguente necessità di rifornirsi di acciaio all’estero imporrebbero di ricalcolare al rialzo il costo di centinaia di progetti, dalle infrastrutture all’automotive passando per gli investimenti nell’industria bellica e aerospaziale, che dalla disponibilità della materia prima prodotta a Taranto dipendono. E dunque è anche per questo che Giancarlo Giorgetti, dalla trincea del Mise, continua a ripetere che “bisogna essere pronti ad assumersi la responsabilità di qualsiasi scelta, pur di tenere aperti quegli impianti”. Tanto più che proprio i fondi europei del Recovery rendono ora plausibile quella dacarbonizzazione, nel segno del metano prima e dell’idrogeno poi, che per decenni è stata vagheggiata come un’utopia, e che invece nelle pieghe del Pnrr viene descritta come una prospettiva non imminente, ma comunque prossima. E insomma è un po’ un ottimismo della volontà quello che spinge un po’ tutti, nel governo, a sperare che quel senso comune che ha forse condizionato la sentenza della corte d’Assise di Taranto venga vinto dal buon senso del Consiglio di stato a Roma.

 

Solo che la questione, sul piano politico, rischia di farsi intricata. Anche perché intricati sono i malumori dentro il M5s. I parlamentari pugliesi si sono quasi tutti ritrovati intorno alle parole di fuoco del deputato tarantino Giovanni Vianello, da sempre sulle barricate No Ilva. “Credere al piano di riconversione scritto nel Pnrr vuol dire voler credere a una favola”, ci dice, in una requisitoria che chiama in causa i ministri del M5s che, spiega, “si sono lasciati irretire dal Pd e hanno finito col rilanciare la tesi della strategicità dello stabilimento”. Ed ecco allora le critiche che deputati e senatori grillini delle commissioni Ambiente rivolgono, con toni sempre più drastici, al ministro Roberto Cingolani. Quello voluto da Beppe Grillo, seconda la prima vulgata del Sacro Blog, e che invece è diventato tra i peggiori nemici dei duri e puri del Movimento. Ai quali è bastato sapere che ieri il responsabile del Mite partecipasse a una diretta Facebook con Matteo Renzi, per dare nuovo fiato alle loro proteste. 
Una guerra condotta in punta d’ortodossia, insomma.

 

Se non fosse, però, che la stessa “favola” contestata oggi dai grillini tarantini era stata scritta anche dal precedente governo, e da quel Giuseppe Conte che, col fido sottosegretario alla PdC Mario Turco, tarantino pure lui, “al progetto di decarbonizzazione dell’ex Ilva a Taranto e alla transizione per la produzione di acciaio verde in Italia” aveva destinato, nel “suo” Pnrr, la stessa cifra stanziata adesso. E qui dunque si viene al problema politico. Perché per Conte, che a Taranto volle precipitarsi nel novembre del 2019  per partecipare coram populo all’assemblea degli operai, l’Ilva rischia di essere un po’ una personalissima Tav. E qui si spiega anche la doppiezza di Turco. Che, nelle sue dichiarazioni pubbliche, ribadisce la necessità di puntare alla transizione green dello stabilimento sfruttando i soldi del Recovery. “E che però a noi portavoce pugliesi – racconta Vianello – ci rassicura sul fatto che una soluzione verso la dismissione dell’area a caldo è ancora possibile”. La stessa soluzione, appunto, su cui  a breve dovrà esprimersi il Consiglio di stato. “E se anche non fosse il Consiglio di stato, sarà allora la Corte europea dei diritti dell’uomo a spingere tutti, anche Conte, a prendere una posizione chiara”, dice Vianello.

 

Di certo, il risentimento del fu Avvocato del popolo nei confronti del suo successore, la mancanza totale di comunicazione tra l’ex premier e Mario Draghi, non aiutano. Ed è in questo clima di sospetti che lo stesso Turco, già da tempo, va dicendo che il consigliere economico di Palazzo Chigi, Francesco Giavazzi, “vuole smantellare la struttura di Investitalia”, quella che tra le altre cose si occupa anche della bonifica di Taranto. E così, di paranoia in paranoia, si arriva anche a dar credito, in casa grillina, a una tesi che per ora non trova alcun riscontro nel governo: quella, cioè, per cui sarebbe imminente un ingresso di Cdp in Acciaierie d’Italia, la società che gestisce l’ex Ilva insieme ad Arcelor, in sostituzione di Invitalia. “Un modo per umiliare ancora Domenico Arcuri”, malignano nel M5s. Anche se il mandato di Arcuri scade tra qualche mese. Forse basterà solo aspettare, per imporre una svolta. 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.