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Ilva, un processo compromesso dalle aspettative mediatiche e politiche

Annarita Digiorgio

Condannati in primo grado Fabio e Nicola Riva a 22 e 20 anni. Pena di tre anni e mezzo per Nichi Vendola. Perché questa sentenza mostrerà il vero profilo politico dei partiti

Si è concluso questa mattina dopo 9 anni dal famoso sequestro del 2012, il primo grado di una vicenda giudiziaria che è diventata fortemente politica, oltre che mediatica, e che tanto ha contribuito alle vicende industriali e politiche del Paese. È il processo penale Ilva, chiamato dal primo momento Ambiente svenduto.

 

Pesanti le condanne, come il pubblico si aspettava: Fabio e Nicola Riva a 22 e 20 di carcere con l’accusa di concorso in associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Tre anni e mezzo per Nichi Vendola, colpevole secondo la corte di concussione aggravata in concorso per aver esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia per alleggerire la posizione dell’agenzia nei confronti delle emissioni inquinati prodotte dallo stabilimento siderurgico. L’unico assolto è Bruno Ferrante, l’ex prefetto di Milano chiamato in fabbrica come ultima possibilità per risanare il legame tra le istituzioni. Durò due mesi, e il pm ne aveva chiesto 17 anni di carcere.

 

La corte sta ancora leggendo il dispositivo relativo ai capi area, per i quali il pm ha chiesto una condanna perché “se erano contrari a queste condotte potevano licenziarsi” ha detto nella requisitoria. Chissà che ne pensa Sabrina Ferilli, che ha chiesto il reintegro di un operaio che chiamava sui social assassini i suoi datori di lavoro, secondo la logica del pm anche lui sarebbe colpevole. Un processo dal primo momento compromesso dalle aspettative mediatiche e politiche conferite ai magistrati sin da quando 9 anni fa arrestarono i Riva e sequestrarono area a caldo, prodotti finiti e 8 miliardi di euro. Fu l’inizio di una stagione che, slegata dalle verità scientifiche, affidò al sensazionalismo emotivo e narrativo la razionalità della politica industriale del Paese, che finì per espropriare la fabbrica ai suoi proprietari per metterla in quarantena a spese dello stato.

 

Suonano come un sasso nello stagno adesso le parole di Nichi Vendola: “Mi ribello a una giustizia che calpesta la verità. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata. Ho taciuto per quasi 10 anni difendendomi solo nelle aule di giustizia, ora non starò più zitto. Combatterò contro questa carneficina del diritto e della verità”. Dieci anni di silenzio appunto, pagati certamente sul piano personale e politico, non solo da Vendola ma da tutta una politica che ha affidato la sua sorte alla magistratura. Non è un caso che il massimo accusatore di Vendola nel processo sia Angelo Bonelli, con i Verdi che hanno provato senza successo a farsi largo elettoralmente sulle sorti giuridiche altrui, lasciando che fossero i 5 stelle a passare all’incasso. Questa sentenza adesso mostrerà il vero profilo politico dei partiti: il Pd costretto a mettere in discussione un’alleanza appena ritrovata, la destra che non può diventare manettara con i nemici, e i 5 stelle all’alba della svolta garantista non potranno cavalcare una sentenza di primo grado.

Una cosa è certa, anche alla luce dalla confisca della fabbrica, se pur non esecutiva: non è il momento degli impunitisti.

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