La presidente della Corte d'Assise Stefania D'Errico durante la lettura della sentenza al processo chiamato Ambiente Svenduto (Foto Ansa) 

Garantisti cercasi

 Così su Ilva trionfano i peggiori tic del circo mediatico giudiziario  

Annarita Digiorgio

Un processo contro la logica del profitto. Cosa non torna nella sentenza della Corte d’Assise che condanna i Riva e Vendola
 

Si è concluso ieri dopo nove anni il primo grado del processo Ilva con sentenze che rispettano le attese: condanne per oltre venti anni di carcere per i due fratelli Riva e gli altri dirigenti della fabbrica, tre e mezzo per Vendola. Assolto Bruno Ferrante, l’ex prefetto di Milano che era stato nominato dal tribunale custode della fabbrica proprio come ultimo tentativo per ricucire il rapporto con le istituzioni. Disposta la confisca degli impianti dell’area a caldo, già sotto sequestro dal 2012, con facoltà d’uso per decreto. Confisca e carcerazioni non esecutive in attesa di appello. Al di là di quello che la narrazione mediatica, coadiuvata da immagini choc e da vere e proprie fiction, in questo processo non si parla di morti, di tumori e di bambini. Può sembrare strano, e forse in parte lo è, ma mai è stato dimostrato, in tanti anni di inchieste e processi, un nesso di causalità tra le emissioni Ilva e malattie e decessi. Eppure tutti abbiamo imparato durante questa pandemia quanto è importante la differenza tra correlazione e causalità nel rapporto tra sostanza e reazione. Il reato contestato in questo maxiprocesso è un altro: disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Mentre la parte politica è accusata di corruzione, per aver ammorbidito i controlli. Un processo comunque duro, complicato, pesante per i caratteri scientifici e tecnici trattati. 


Tra i banchi dell’aula bunker di Taranto hanno sfilato i più grandi scienziati italiani che a più riprese hanno smontato pezzo per pezzo la perizia madre commissionata dal gip che ha dato il via al processo, ai sequestri, alla campagna mediatica, e alla fine di una grande impresa italiana. Ma i pm, e l’opinione pubblica, sono rimasti fermi all’indagine preliminare. Non a caso citano ancora le parole del gip, come sui manifesti sventolati durante la lettura della sentenza. “Del merito di questa sentenza, tanto incredibile quanto ampiamente preannunciata, parleremo con le nostre impugnazioni. Mi interessa solo richiamare l’attenzione sulla dimensione scenografica della lettura del dispositivo – ha detto l’avvocato presidente delle camere penali Gian Domenico Caiazza, che in questo processo difendeva il responsabile delle pubbliche relazioni. “In prima fila, al centro dell’aula, solo un lungo e comodo banco per l’accusa. Per la difesa nemmeno un simbolico strapuntino. Una foto perfetta, nitida e veritiera di questo processo, una vicenda interamente appaltata alla pubblica accusa, nella quale la difesa ha rappresentato solo un inevitabile intralcio. Mai visto uno spettacolo del genere – solo il banco per l’accusa – in tutta la mia carriera di avvocato”.

 

Riva, eroe italiano della siderurgia da forno elettrico, viene chiamato ad acquistare l’Ilva di Taranto nel 1995, quando quella fabbrica perdeva in mano allo stato 4 miliardi l’anno, avendo già alle spalle condanne per inquinamento da amianto. A Taranto si mette a produrre con altoforno perché quella era la tecnologia che aveva trovato, e per legge non poteva cambiarla. Così come aveva trovato i camini a ridosso della città, il cui quartiere Tamburi si era negli anni 70 espanso intorno alla fabbrica. Il contratto di acquisto con lo stato all’art. 6 imponeva di mantenere i livelli produttivi e occupazionali, con penale miliardaria in caso di mancato rispetto della clausola contrattuale. Dal 1995 al 2012 i Riva effettuano investimenti (certificati) per oltre 4,5 miliardi di euro, di cui circa 1,2 miliardi solo ambientali; e installano quelle che allora erano le migliori tecnologie disponibili come certificato dalla sentenza irrevocabile del Tar Lecce del 2011. Riva non solo non ha mai violato le leggi all’epoca vigenti, ma non ha neanche mai risparmiato sugli investimenti industriali e ambientali, con un’azienda competitiva, all’avanguardia, e con grandi guadagni. Come stabilito dalla sentenza di assoluzione dalla bancarotta fraudolenta del tribunale di Milano del 2020, la proprietà Riva “a partire dal 1995 e fino al 2012 ha sostenuto costi in materia di ambiente ammontanti a oltre un miliardo di euro, e più di tre miliardi per l’ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti”. La stessa sentenza ha fissato che lo stabilimento di Taranto osservava, all’epoca dei fatti, i limiti emissivi previsti dalle leggi; e che aveva in gran parte anticipato, già nel 2011, le tecniche di seconda generazione che sarebbero entrate in vigore solo nel 2018. “Ma come facciamo noi a rispondere alla mamma che ha perso il bambino che i limiti erano in regola?” ha chiesto il pm di Taranto. Riva già nel 2011 aveva programmato investimenti per altri 3 miliardi per introdurre, immediatamente otto anni fa, le migliori tecnologie disponibili per abbassare l’impatto ambientale. Infatti subito dopo il sequestro penale, l’allora ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, emanò una nuova autorizzazione integrata ambientale, riuscendo a convincere i proprietari ad attuarla entro il 2015.

 

Dopo l’arresto preventivo della famiglia, fu chiamato il prefetto Ferrante proprio come garanzia istituzionale per attuare quegli impegni. Invece il 26 novembre 2012 il gip di Taranto sequestrò “come corpo del reato” i prodotti finiti, già pronti per la vendita, per un valore di 1 miliardo che l’azienda aveva destinato proprio ai primi investimenti per l’attuazione del programma di risanamento. Il governo varò un decreto di sblocco, che il gip impugnò mantenendo il sequestro. Il 9 aprile 2013 la Corte costituzionale respinse le eccezioni di incostituzionalità sollevate dalla procura di Taranto, rilevando peraltro che le misure di risanamento ambientale dello stabilimento (Aia) corrispondevano all’obiettivo della salvaguardia contestuale del diritto al lavoro e del diritto alla salute. Quindi dando ragione a Clini e ai Riva. Tuttavia il gip dispose un ulteriore sequestro preventivo “per equivalente” di 8,1 miliardi. Il doppio di quelli che avrebbe dovuto investire ArcelorMittal, e quattro volte quelli previsti per l’investimento industriale dello stato oggi. Il più grande sequestro preventivo mai avvenuto in Italia. Sei mesi dopo la Cassazione dichiarerà nullo quel sequestro, ma nel frattempo i Riva erano ormai stati allontanati dalla loro fabbrica, che venne commissariata dal governo. Non un esproprio, ci terrà a precisare il governo dell’epoca (guidato da Enrico Letta), ma un commissariamento poi divenuto amministrazione straordinaria, al solo fine di ambientalizzare la fabbrica. 


Alla difesa dei Riva rappresentata dall’avvocato Annicchiarico – che ha provato nell’arringa difensiva a escludere il dolo, smontando le perizie del gip e dell’accusa –  il pm ha risposto: “Dove sta scritto che il fine di produrre acciaio deve escludere il fine di produrre disastri?”. “La sentenza offrirà – ha detto il pm nella requisitoria – anche un elemento di speranza per altri bambini e per una Taranto libera dall’inquinamento. Perché questo processo non deve essere un punto di arrivo, ma di partenza per la popolazione tarantina e i suoi figli. Un punto di partenza che deve spiegare cosa ha subìto Taranto negli anni di gestione del siderurgico da parte del gruppo Riva e come un complesso industriale come l’Ilva sia incompatibile con la salute della gente residente nei comuni limitrofi”.


Si è chiesto ancora una volta a un processo, a dei giudici, perlopiù popolari, non di verificare responsabilità personali, ma si è attribuito loro una funzione salvifica, moralizzatrice, educativa e politica che non dovrebbero avere. E non solo rispetto agli imputati, ma, in questo caso, a tutto un sistema industriale che dalle parole del pm e dalla perizia madre del gip trova giustificazione “nella logica del profitto”, che per l’accusa diventa allo stesso tempo reo, movente, arma del delitto e reato. Si è concluso ieri il primo grado di una vicenda giudiziaria che è diventata fortemente politica, oltre che mediatica, e che tanto ha contribuito anche al successo dei 5 stelle che da quei sequestri preventivi hanno fatto della chiusura del siderurgico elemento fondante della loro campagna elettorale e identitaria che li portò, nel 2018, a prendere più del 50 per cento dei voti a Taranto eleggendo sei parlamentari di cui uno, Mario Turco, diverrà sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Conte. E mentre a sinistra oggi difendono Nichi Vendola (ex governatore condannato a tre anni e mezzo per concussione aggravata in concorso) perché, come lui stesso dichiara, è stato uno dei primi a imporre nuove leggi ambientali, e a destra i referendari e industrialisti salviniani diffondono meme forcaioli contro l’ex presidente della regione, aspettiamo di sapere il parere degli ultimi arrivati tra le file dei garantisti. Del resto anche il sindaco di Lodi era stato condannato in primo grado, chissà se la svolta vale solo per i politici, o anche per le imprese.

 

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