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Imprese colpevoli di coronavirus

Augusto Romano

L'Inail, come previsto dal decreto Cura Italia, classifica il contagio da Covid-19 come infortunio sul lavoro. E così la responsabilità graverà sugli imprenditori, anche se si rispettano gli standard previsti

Il governo sta facendo molto per sostenere le imprese che già oggi si trovano ad affrontare gli effetti economici dell'emergenza coronavirus. Ma, come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli. E così accanto alle risorse stanziate spunta un codicillo che, in prospettiva, preoccupa e non poco gli imprenditori italiani. L’articolo 42 del decreto Cura Italia, al comma 2, prevede infatti che se sei un lavoratore contagiato dal Covid-19 il tuo caso è iscritto nel registro dell’Inail come infortunio sul lavoro.

 

Il principio generale sarebbe quello secondo cui le malattie infettive contratte in circostanze lavorative sono considerate infortuni sul lavoro, ma il punto discusso è: come si fa a stabilire che il lavoratore sia stato contagiato sul luogo di lavoro e non fuori? È proprio questo automatismo a mettere in apprensione il mondo dell’impresa, già duramente provato dall’emergenza sanitaria in corso, specie quella parte che continua a lavorare per garantire servizi essenziali. Ogni impresa ha infatti un unico registro degli infortuni, una sorta di archivio storico che nasce e muore con l’impresa stessa: per quale motivo, si chiedono gli imprenditori, dovremmo assumerci responsabilità che non abbiamo, soprattutto se le nostre imprese rispettano gli standard previsti per il contenimento dell’epidemia?

 

È la domanda che si sono posti, ad esempio, gli iscritti all’Ance, l’Associazione Nazionale Costruttori Edili. “Intanto chiariamo un concetto: la vita umana vale più di qualunque altra cosa e, per sottolineare questo convincimento, abbiamo voluto sostenere l’attività di ricerca dello Spallanzani di Roma, con una sottoscrizione tra i nostri iscritti - dice al Foglio Pino Pisicchio, politico di lungo corso, costituzionalista e oggi anche presidente dell’Anceferr, Associazione Nazionale dei Costruttori Edili Ferroviari Riuniti - Al secondo posto, però, appare ineludibile l’attenzione nei confronti del patrimonio industriale italiano, perché la sopravvivenza in condizioni di estremo depauperamento rappresenta l’altra faccia letale della malattia. Noi dell’Anceferr, con le nostre 58 imprese operanti nel settore delle opere civili nell’ambito del sistema ferroviario, con 12.000 dipendenti e un fatturato annuo pari a 1,8 miliardi di euro ( circa lo 0,1% del Pil che si raddoppia con l’indotto) crediamo fermamente che, anche in un momento di crisi drammatica come quella che stiamo vivendo da più di un mese, è necessario tenere insieme i due elementi: tutela della salute della persona e tutela dell’impresa, per poter garantire una ripartenza a questo nostro paese”.

 

“Può accadere - prosegue -, non per malagrazia da parte dei decisori pubblici, ma per l’accavallamento di emergenze e di produzione normativa, che i due elementi, sicurezza e attività d’impresa, non trovino un adeguato equilibrio all’interno delle regole emergenziali messe in campo dal governo. È il caso del Cura Italia, che arriva a configurare il Covid 19 come un infortunio sul lavoro, facendo così gravare sull’impresa responsabilità del tutto inappropriate, imponendo una sorta di inversione dell’onere della prova a carico dell’imprenditore, che dovrà dimostrare di aver applicato ogni cautela per garantire la sicurezza del lavoro del suo dipendente, il quale potrebbe contrarre il coronavirus nel tempo, assolutamente prevalente, vissuto fuori dall’azienda. Operiamo in un settore, il sistema ferroviario, che svolge un servizio pubblico, seppure in questo periodo necessariamente ridotto all’essenziale. Abbiamo una funzione strategica volta a dare risposta alla richiesta che il governo ci pone, di far sì che non venga interrotto il servizio del trasporto ferroviario. Siamo consapevoli della nostra responsabilità, ma non possiamo caricarci anche di responsabilità che non abbiamo. La norma va dunque rivista e resa coerente con il principio di realtà”.

 

Preoccupazioni condivise da Luca Failla, giuslavorista, founder partner di Lablaw, “il principio di tutela dei lavoratori è giustissimo, ma qui siamo di fronte ad un film già visto: la certificazione del contagio come infortunio sul lavoro automaticamente apre un’autostrada al contenzioso con l’azienda che, nei dieci anni successivi all’indennizzo Inail, è sotto scacco, sia dal punto di vista civile, sia da quello penale. L’iscrizione al registro dell’Inail è una sorta di ‘bollinatura’ che mette il dipendente in una condizione di forza ed è facile prevedere che nei prossimi anni fioccheranno le citazioni per danno differenziale (il danno patrimoniale non viene mai coperto al 100% dall’Inail) e per danno biologico. È vero, inoltre, che l’articolo esclude il computo dei casi di coronavirus dal meccanismo di oscillazione dei premi Inail, ma questo non esclude azioni in regresso da parte dell’ente assicurativo per accertare eventuali responsabilità del datore di lavoro e non esclude neanche un aumento generalizzato dei premi dovuto al caricamento indiretto del tasso medio nazionale”.

 

Anche il penalista Guido Camera lancia l'allarme: “L’infortunio sul luogo di lavoro dà adito a responsabilità penale per il datore di lavoro e, quando è grave o mortale, anche per l’azienda, ai sensi del decreto legislativo 231 del 2001. Presumere che il contagio si sia verificato sul luogo di lavoro, o nell’esercizio della mansione, può essere una forma di ampliamento degli ammortizzatori sociali - scaricata sugli imprenditori - che è, però, incompatibile con il nostro ordinamento penale, perché è una forma di responsabilità oggettiva incolpevole, difficilmente superabile anche se il datore di lavoro dimostra di avere fornito i dispositivi di sicurezza individuale al lavoratore (guanti e mascherine) e di avere previsto che l’esercizio della mansione comportasse il dovere, e la possibilità, di rispettare la distanza di sicurezza”.

L’imprenditore sarebbe colpevole anche senza responsabilità. Un paradosso, insomma, che fa pensare più che al Comma 2, al Comma 22, romanzo di Joseph Heller magistralmente omaggiato da Bonvi in Sturmtruppen. Il celebre “chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo” diventa così “se l’impresa rispetta le norme e il lavoratore contrae il Covid la responsabilità non è necessariamente dell’impresa, ma la responsabilità di tutti i lavoratori che contraggono il Covid è dell’impresa”. Un corto circuito giuridico che pone non pochi problemi.

 

Ne abbiamo parlato anche con Gaetano Veneto, prima allievo e poi successore di Gino Giugni, padre dello Statuto dei Lavoratori, all’Università di Bari (oltre che deputato dell’Ulivo e consigliere di Carlo Azeglio Ciampi in Bankitalia): “L'innovazione normativa introdotta nell'ordinamento, volta ad allargare la protezione dei lavoratori nell'attuale problematico momento del sistema di relazioni sociali, ambientali, sociali e produttive, va letta, con i connessi problemi di integrazione sistematica, con la Legge 81/2008 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, e con le responsabilità connesse per datori di lavoro e diretti collaboratori. La circolare Inail, indubbiamente 'espansiva' verso i lavoratori, direi comprensibilmente dato il momento, pone qualche problema in tema di responsabilità dei datori di lavoro rispetto agli obblighi in tema di organizzazione dell'attività produttiva e predisposizione di strumenti o attrezzature, specie nella sanità, al fine di escludere la responsabilità e, soprattutto, in tema di onere probatorio per l'esclusione del dolo e della colpa, almeno la grave. Il problema ha anche risvolti di costituzionalità, dall'iniziativa economica al tema della retroattività. Il 'balletto' degli emendamenti, dalle forze di maggioranza a Matteo Salvini, sulle responsabilità datoriali, in parallelo a quelli sull'esclusione della responsabilità di medici e operatori sanitari, è in logico contrappasso con il precedente tema. Può concludersi che l'arrivo a sorpresa di questo moderno flagello, ancora incontenibile, rischia di attaccare alle radici le più grandi, e sacre, certezze: da quella del diritto a quelle, incommensurabili, delle libertà fondamentali e della vita”.

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