Il populismo non cura la povertà

Giulia Pompili

Non esiste una bacchetta magica per abolire la povertà, ci dice il premio Nobel per l’Economia Abhijit Banerjee. Servono studi e misure non demagogiche. Finora abbiamo promesse che non portano a niente. Esempio? Il reddito di cittadinanza

Hong Kong. La povertà è un problema complesso. Anzi non è nemmeno un problema, sono centinaia di problemi diversi che chiamiamo con lo stesso nome. E gli unici che parlano continuamente di povertà senza poi occuparsi dei poveri sono proprio i populisti. L’economista indiano Abhijit Banerjee, che ha vinto il premio Nobel per l’Economia tre mesi fa, ospite d’onore al 13° Asian Financial Forum di Hong Kong spiega che non esistono “risposte globali alla povertà, ma misure specifiche per diversi fattori, che sono molto meno globali di quanto pensiamo. Per esempio, perché i bambini che vivono in aree difficili del mondo a scuola imparano meno?”. Per trovare la risposta a questa domanda, dice al Foglio Banerjee, bisogna identificare un fattore, che è specifico del luogo, del tempo, e non è detto che sia sbagliato per tutti i sistemi del mondo. Inoltre “non si possono applicare le stesse soluzioni alla sanità, per esempio, o all’educazione, o all’ambiente. E’ per questo che ci sono decine di team nel nostro centro di ricerca, il Poverty Action Lab, che si occupano di settori diversi”. L’Accademia svedese quest’anno ha assegnato il Nobel a tre economisti, oltre a Banerjee ci sono Esther Duflo (la più giovane di sempre) e Michael Kremer. Duflo è coautrice di molte importanti ricerche di Banerjee, entrambi sono docenti del Massachusetts Institute of Technology. Hanno scritto nel 2011 “L’economia dei poveri. Capire la vera natura della povertà per combatterla” (Feltrinelli), un libro potente che offre soluzioni concrete alla lotta contro la povertà. Anni di ricerche, circa ottanta studi campione pressoché ovunque nel mondo, dall’India (dove Banerjee e Duflo si sono incontrati per la prima volta, molti anni fa. E poi si sono sposati nel 2015) all’Europa fino all’Africa, facendo esperimenti sul sistema scolastico, sull’aumento dei salari, sul consumo di cibo tra la popolazione più povera. Un sistema estremamente complesso, la cosa più lontana che si possa immaginare dalla dichiarazione del leader del M5s Luigi Di Maio che a settembre del 2018 ha detto: “Abbiamo abolito la povertà”.

 

“Il populismo è una reazione al centrodestra e al centrosinistra, che hanno governato le politiche economiche per così tanto tempo – e penso a Sarkozy in Francia o Blair e Cameron in Gran Bretagna. Insomma il populismo è una promessa: adesso faremo qualcosa per voi. E questa cosa idealmente si riduce a una redistribuzione, ma in realtà non fa che mantenere lo status quo. Così continuano a crescere le diseguaglianze e nella sostanza viene fatto molto poco per chi subisce particolarmente gli effetti della globalizzazione e i cambiamenti della modernità. Ci sono un mucchio di perdenti in queste politiche, e sono quasi sempre concentrati in aree che conosciamo bene, che possiamo prevedere: nel nord dell’Inghilterra, per esempio, nel nord e nell’est della Francia. A queste persone si promette tantissimo ma ben poco poi si realizza”.

 

Per Banerjee, questo è un problema generale in molte delle economie sviluppate, “e l’ascesa del populismo in paesi come la Francia, la Gran Bretagna o l’America è in parte una reazione ad alcuni fallimenti passati, legati alle vecchie politiche economiche. I populisti arrivano e propongono una ricetta completamente diversa – e io non credo a nessuna di queste ricette, nemmeno in minima parte – ma posso comprendere in qualche modo perché la gente ci crede”. Eppure in Italia abbiamo “abolito la povertà” con il reddito di cittadinanza. Lei sa niente di questo reddito di cittadinanza? Secondo il partito di governo in Italia è la ricetta contro la povertà. E qui Banerjee si anima, e inizia a parlare più appassionato, la questione gli sta a cuore: “Ma non vedo proprio nessuna ricetta. Anche se lo fosse, per dirlo bisognerebbe aspettare la realizzazione finale, che non è il basic income stesso. Quello è solo una piccola parte delle misure teorizzate, e di base sostituisce altri sussidi”. Per il premio Nobel, quindi, non basta staccare l’assegno per risolvere il problema più complesso che c’è. E ne parla conoscendo il problema: in India Banerjee ha promosso una sorta di reddito di cittadinanza, molto più complesso. Lo scorso anno ha pubblicato un paper sul reddito di base universale “per i paesi in via di sviluppo”, che si basa sui dati raccolti dopo alcuni esperimenti di sussidi universali, in India, in Namibia, in Iran. Qui dove la povertà estrema è il problema fondamentale per lo sviluppo economico, Banerjee ha trovato degli aspetti positivi negli studi pilota, ma scrive nelle conclusioni che comunque “è ancora troppo presto per valutarne gli effetti”.

 

“Non c’è nessun test, nessun esperimento. Per farlo diventare un programma dovremmo sapere come si finanzia”, dice al Foglio, “qual è la sua scala di realizzazione. Non è mica una cosa facile: se paghi una persona cento dollari al mese o mille dollari al mese, sono cose estremamente diverse, e saranno diverse anche le implicazioni che avranno sul sistema di finanziamento. Insomma, penso che dovremmo avere questa conversazione quando ci sarà un vero piano sul reddito di cittadinanza e sulla povertà”.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.