Chi governa la spesa

Valerio Valentini

Economia e sviluppo tra nomi e suggestioni. Come orientarsi nelle due partite più pesanti del sottogoverno

Roma. Giuseppe Conte, nelle riunioni di questi giorni, lo ha detto chiaro e tondo ai suoi interlocutori. “I partiti discutano pure sui nomi che preferiscono, com’è giusto, ma ricordiamoci che poi viceministri e sottosegretari passeranno al vaglio mio e del presidente della Repubblica”. Raccomandazione perfino banale, non fosse che però, nei conciliaboli più informali tra il premier e i rappresentanti di M5s e Pd, è stato rievocato anche il caso di Claudio D’Amico, il consigliori salviniano con tendenze filoputiniane, che il leader della Lega voleva sottosegretario agli Esteri, un anno fa, e che invece fu bocciato dal Quirinale proprio per le sue ambigue relazione con Mosca. Un riferimento alla Farnesina che deve essere suonato sinistro, alle orecchie di Luigi Di Maio.

  

Il quale, però, pressato a sua volta dalle richieste assillanti di chi mendica una poltrona di sottogoverno, ha messo le mani avanti. “Ora tutti dicono che abbiamo dato troppi posti al Pd”, ha sbottato il capo politico del M5s. “Ma al momento fatidico della trattativa, Grillo e Conte mi hanno sparato alle spalle”. Un modo, insomma, per scaricare preventivamente dalle sue spalle la responsabilità per eventuali delusioni di chi, nei prossimi giorni, vedrà sfumare il sogno di un incarico governativo.

 

Alessandro Di Battista, ad esempio, le sue ambizioni da ministro, o vice, le ha già deposte qualche giorno fa. “Io ero contrario a questo accordo col Pd – ha confessato ai suoi interlocutori il barricadero guatemalteco – e l’ho detto in tutte le salse. E’ stato Luigi a propormi di far parte della squadra di governo. Ma tempo ventiquattr’ore, mentre ancora ci riflettevo su, mi chiama Stefano Patuanelli: ‘Se entri tu’, mi dice, ‘il Pd pretende di inserire la Boschi’. Manco morto”. Dibba a parte, molti altri aspiranti sottosegretari dovranno attendere fino a venerdì prossimo, termine ultimo per definire tutte le caselle dell’esecutivo rousseaugiallo. A pretendere celerità, sono i ministri economici, che più di tutti temono lo stallo della macchina. Motivo per cui, ad esempio, Laura Castelli confida di poter mantenere il suo incarico di viceministro. “C’è stato un veto del Pd su un mio incarico di ministro, ma a Via XX Settembre – dice la contabile grillina ai deputati che s’informano sul suo futuro – serve continuità e conoscenza delle strutture. Non è questione di andare più o meno d’accordo con Tria o con Gualtieri, è questione di avere lavorato per mesi a una legge di Bilancio che non può attendere ancora molto, e di conoscerne bene ogni capitolo”. E quasi se lo gode, la Castelli, il garbo con cui Renato Brunetta le offre il baciamano, in mezzo al Transatlantico, emulato di lì a poco anche da Luigi Marattin, juventino come lei, che potrebbe andare ad affiancarla, in quota renziana, al Mef. Dove, alla corte di Gualtieri, per il Pd si fa anche il nome di Mauro Marino per le deleghe fiscali, o di Antonio Misani, responsabile economico della segreteria di Nicola Zingaretti che però potrebbe anche usufruire di un piano B: e, cioè, la presidenza della commissione Bilancio alla Camera, che rimarrebbe orfana del grillino Daniele Pesco qualora fosse lui a ottenere la promozione a Via XX Settembre.

  

E poi c’è il Mise. Patuanelli, titolare dello Sviluppo economico, mercoledì pomeriggio ha convocato deputati e senatori delle commissioni competenti. “Voglio confrontarmi con loro”, dice il neo ministro, che però dovrà rinunciare alle deleghe sul Commercio estero che Di Maio ha rivendicato per sé alla Farnesina. “D’altronde – dice il deputato Andrea Colletti – l’aver lasciato i ministeri del Lavoro e dello Sviluppo è stato un errore di Luigi: dà l’impressione di voler scappare, anziché rivendicare i buoni risultati che pure aveva conseguito. Alla Farnesina dovrà inevitabilmente giocare un ruolo più politico, ora: occupandosi anche di migranti e di sostegno alle imprese attraverso la cooperazione internazionale”. Verrà affiancato da Manlio Di Stefano, che per mantenere il suo incarico di sottosegretario sta facendo anche valere il buon punteggio ottenuto nelle “graticole” interne fatte dai parlamentari grillini (“Il massimo dei voti: 10/10”, esulta). E in corsa per un posto alla Farnesina c’è anche Marta Grande, attuale presidente della commissione Esteri, che potrebbe così cedere la sua poltrona a un deputato del Pd. Quanto al Mise, Di Maio ha suggerito a Patuanelli di conservare le deleghe sulle Telecomunicazioni, anche se l’ex capogruppo al Senato, pare ritenga più irrinunciabili quelle all’Energia. E anche dall’esito di questo confronto, dipenderà il risiko dei nomi per Via Veneto, dove potrebbe approdare Stefano Buffagni, il milanese che continua a sognare un posto da sottosegretario a Palazzo Chigi, ma che potrebbe dovere accettare un ruolo che lui pare non gradire troppo. Lo si capisce dal contegno con cui accoglie l’invito che gli rivolge Federica Zanella, deputata di Forza Italia, lombarda, appena fuori dall’Aula: “Stefano non fare il pirla. Fai un bel respiro e accetta l’incarico di viceministro ai Trasporti”. Lui nicchia, fa il ritroso: “Tutti mi vogliono dovunque ma poi non faccio mai niente”, sorride. E poi, velenosa, arriva la frecciata: “Quasi quasi, vado a fare il presidente della nuova Banca per il Mezzogiorno”, dice, con riferimento vagamente polemico alla Banca pubblica per gli investimenti nel mezzogiorno annunciata da Conte. “Sento che il nuovo ministro del Sud, come prima mossa, ha annunciato nuove assunzioni nella Pa. Non è il massimo. Dobbiamo capire che il tema del nord e delle imprese è fondamentale, per il bene del paese, e tra l’altro, anche per la tenuta di questo governo”.

  

Ma più che a quella, i grillini sono interessati alla spartizione delle poltrone. E allora ecco che mentre infuria il dibattito alla Camera a seguito del discorso di Conte, i deputati siciliani si riuniscono in conclave per proporre “i nomi da spingere”. E riescono a dividersi anche in quel consesso ristretto, se è vero che i catanesi perorano la causa di Laura Paxia o Mario Giarrusso, ma i messinesi gli rinfacciano che loro un ministero già l’hanno ottenuto, con Nunzia Catalfo, e che semmai bisognerebbe valorizzare adesso Francesco D’Uva, capogruppo uscente alla Camera che puntava ai Rapporti col Parlamento, senza contare che però i palermitani vorrebbero imporre Giorgio Trizzino, amico di Mattarella, alla Sanità. E intanto anche gli abruzzesi, improvvisano un summit in Transatlantico, coinvolgendo pure gli odiati colleghi del Pd. Un dibattito così convulso che Di Maio prova a riprenderne le redini, e alle otto di sera chiama a raccolta i capigruppo delle varie commissioni, per imporre un metodo. Che prevede nuove riunioni, oggi, per ciascuna commissione: e da queste verrà fuori una rosa di nomi di possibili sottosegretari su cui, poi, partirà il lavoro di vaglio. E sarà, c’è da scommetterci, un gioco al massacro.

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