La catena di montaggio della 600 a Mirafiori (foto LaPresse)

Il problema di Torino sono i “poteri forti” che non ci sono più

Giuseppe Berta

La migrazione del Salone dell’auto, la presentazione in tono minore della 500 elettrica e altri segni della dissolvenza

Che sta succedendo a Torino? Che cosa c’è all’origine di un cortocircuito tale da coinvolgere politica ed economia e da colpire l’immagine di una città che all’inizio del Duemila sembrava procedere tra le più spedite in Italia? Da un po’ di tempo pare che Torino non ne imbrocchi più una. Non solo, insieme col Piemonte sta scendendo nelle classifiche economiche, ma la sua amministrazione municipale è piombata nel caos al punto da sfidare il primato negativo di quella di Roma.

 

La crisi si è manifestata proprio in un giorno che sarebbe dovuto essere di festa e di celebrazione per la città (sebbene un po’ sottotono): giovedì scorso sono stati installati i primi robot destinati alla linea di produzione della 500 BEV, l’auto elettrica che entrerà in produzione entro il primo semestre dell’anno prossimo. Fca ha così colto l’occasione per ricordare insieme gli ottant’anni di Mirafiori (inaugurata da Mussolini nel maggio 1939) e il centoventesimo anniversario della costituzione della Fiat. Come si è detto, l’evento si è svolto senza enfasi, in tono minore: ristretto il numero degli invitati convenuti in fabbrica, semplice la cerimonia officiata dal responsabile di Fca per l’area Emea, Pietro Gorlier, e da un valente e sperimentato tecnico di produzione, l’ingegner Galante. Del resto, nessuno si avventura a dire quante saranno le vetture elettriche che usciranno da una linea cui saranno addetti 1.200 operai: certo non saranno numeri in grado di determinare un’inversione di rotta rispetto all’andamento attuale della produzione torinese di Fca. L’automotive locale non può contare più di tanto sull’apporto di Fca per progettare il suo futuro ed è bene che lavori lungo assi di sviluppo che non passano necessariamente dagli impianti di Mirafiori e di Grugliasco. Quel che serve adesso è un orizzonte collettivo che incorpori evidentemente i processi e i prodotti di Fca, ma che di sicuro non può reggersi sulla spinta di una multinazionale che da tempo non ha più a Torino i suoi gangli fondamentali.

 

Il nuovo investimento di Mirafiori (del valore di 700 milioni di euro) serve però a comune e regione (dove si è appena insediata la giunta di centrodestra guidata da Alberto Cirio) per dimostrare di non aver smarrito il legame con Fca e che quest’ultima è ancora radicata nei suoi luoghi d’origine. Di qui la palese soddisfazione con cui Chiara Appendino e Cirio hanno salutato l’avvento di una pur limitata produzione di 500 elettriche. Una soddisfazione pienamente esternata col contorno di selfie, felpe di Fca, brindisi alla nuova vettura per festeggiare una ripartenza, pur con cifre modeste.

 

La festa è stata però rovinata la sera stessa dall’annuncio che anche ciò che rimaneva del Salone dell’auto (in realtà, una manifestazione che si teneva all’aperto, in particolare nel Parco del Valentino) stava per trasferirsi a Milano e che quella che si era tenuta da poco era dunque da considerarsi come l’ultima edizione. Era la goccia che ha fatto traboccare il vaso: la sindaca inaugurava immediatamente un cambio di passo e col consenso del vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio se la prendeva con la parte non piccola della sua maggioranza che era stata critica verso le Olimpiadi invernali, verso il Salone dell’auto e verso un po’ tutte le iniziative tradizionali, o ereditate dalle amministrazioni precedenti o sostenute dalle componenti della città identificabili con le sue rappresentanze economiche.

 

Vittima simbolica della svolta di Appendino il vicesindaco Guido Montanari, un urbanista che ha assunto il ruolo di alfiere delle istanze radicali dell’amministrazione. Non un pentastellato di appartenenza ma portatore di posizioni che, almeno per un po’, sono parse gradite alla sinistra-sinistra, una delle varie e composite anime della maggioranza che ha sconfitto Piero Fassino alle elezioni del 2016.

 

La Torino fordista s’è sgretolata, ma non si sa che cos’ha preso il posto
delle sue organizzazioni. Manca persino una percezione della società locale che non si limiti a enfatizzare quello che è andato perduto
e ponga invece l’accento su quanto esiste di nuovo.
Il futuro della città andrebbe ricomposto da qui 

 

Appena estromesso dalla giunta, Montanari ha denunciato la sudditanza della sindaca ai “poteri forti” che vorrebbero riprendersi il controllo della città. Una spiegazione che tuttavia non convince: un tempo, quando ancora sopravvivevano le istituzioni della città fordista, i poteri forti esistevano e si facevano sentire. Ma oggi , dopo che per Fca Torino è diventata più un problema che una risorsa e non c’è più un forte tessuto di banche, assicurazioni e imprese, parlare di poteri forti sembra quasi un’ironia. Inoltre, una volta anche le rappresentanze dei lavoratori erano soggetti dotati di potere; oggi risultano pressoché ininfluenti sulla vita cittadina.

 

La Torino fordista si è sgretolata, ma non si sa che cos’ha preso il posto delle sue organizzazioni. Manca persino una percezione della società locale che non si limiti a enfatizzare quello che è andato perduto e ponga invece l’accento su quanto esiste di nuovo. Il futuro economico e amministrativo di Torino andrebbe ricomposto a partire di qui, ma non si intravedono soggetti che abbiano la forza di tentare quest’operazione ambiziosa. Qualcosa di analogo era nei programmi originari del M5s, ma più che altro come petizione di principio: alla prova dei fatti le intenzioni si sono rivelate velleità prive di concreti strumenti operativi.

Finché c’erano i poteri forti, una direzione di marcia, magari fissata da un novero ristretto di soggetti decisori, finiva coll’essere indicata. Adesso toccherebbe ricomporla dal basso, pezzo dopo pezzo, ma chi potrà mai compiere quest’opera di cucitura paziente, cui si erano improvvidamente candidati i Cinque Stelle tre anni fa?

 

La storia di Torino è stata mutata quasi cinque secoli fa dalla decisione di Emanuele Filiberto di Savoia di stabilire a Torino la capitale del ducato, lasciando Chambery. Da allora la città ha atteso che le scelte circa il suo destino fossero calate dall’alto, dalla monarchia sabauda prima e poi dall’élite industriale. Ora Torino è entrata in una sua complessa stagione repubblicana, di cui deve però definire ancora le procedure di governo, tanto nel campo della politica e dell’amministrazione quanto in quello dell’economia. Deve soprattutto imparare a sviluppare l’arte della cooperazione tra soggetti eterogenei, indispensabile per ritrovare le funzioni e lo spazio che per il momento le sfuggono.