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Perché il calo del commercio frena il pil mondiale. Appunti per l'Italia

Mariarosaria Marchesano

Nel 2019 gli scambi mondiali di beni e servizi potrebbero frenare la loro crescita al 2,6 per cento, contro il 4,7 per cento messo a segno nel 2017. Cosa rischia il nostro paese

Milano. L’appello lanciato alla Casa Bianca da una decina di produttori di scarpe americani – tra i quali marchi famosi come Nike, Adidas e Foot Looker – per porre fine alla guerra commerciale, dimostra che sia che si tratti di microconduttori oppure di sneaker il tema è lo stesso: con l’escalation dei dazi si rischia di interrompere intere catene produttive, il che in un’economia globalizzata equivale a spingere le imprese a fermare o a spostare gli impianti produttivi in altre aree mettendo in crisi un modello di divisione internazionale del lavoro che funziona da quarant’anni.

 

Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale del commercio, nel 2019 gli scambi mondiali di beni e servizi potrebbero frenare la loro crescita al 2,6 per cento, contro il 4,7 per cento messo a segno nel 2017, prima che scoppiassero le tensioni tra Stati Uniti e Cina. In pratica, lo sviluppo del commercio mondiale si è quasi dimezzato in appena due anni. L’opinione ormai diffusa tra gli analisti che osservano i mercati finanziari, con il timore che tutto questo porti a un crollo dei valori, è che le barriere doganali rappresentino un fenomeno che va di pari passo con l’indebolimento delle democrazie liberali e l’ascesa dei leader populisti. “Dagli Stati Uniti di Trump all’Europa all’Italia, ma anche in Ungheria e Polonia, oltre che in Sudamerica, l’ascesa globale dei populismi e il ritorno al protezionismo stanno mettendo i bastoni tra le ruote al commercio globale, avviando una fase di 'deglobalizzazione'”, dice Alessandro Tentori, Chief investment officer di Axa Im Italia.

 

In che misura questo fenomeno rischia di spingere il mondo in recessione? Nei giorni scorsi l’Ocse ha lanciato l’allarme dicendo che quest’anno è previsto un forte rallentamento dell’economia mondiale (3,2 per cento) rispetto agli ultimi trent’anni a causa proprio delle tensioni commerciali. “Ogni azienda investe per produrre, produce per vendere, ma se non sa dove e come vendere, allora gli investimenti rallentano o si fermano, e l’economia frena. Un guaio per tutti, che tutti dobbiamo sforzarci di risolvere”, ha detto Angel Gurria segretario generale dell'Ocse.

 

In Europa, gli ultimi 12 mesi di tariffe in aumento hanno già danneggiato la fiducia delle imprese che ora è ai minimi storici in Germania. Se nessuno interviene, la situazione potrebbe ancora peggiorare. “Una recente analisi della Bce suggerisce una deviazione della crescita globale di un punto percentuale dalla stima di base, cioè un pil globale che scende dal 3,5 per cento al 2,5 per cento nel prossimo biennio – rivela Tentori – Questo scenario risulta da una combinazione negativa di scambi commerciali e di sentiment globale”.

 

C’è da domandarsi che cosa può succedere in Italia dove da oltre un anno governa una coalizione populista. Dopo che martedì l’Ocse ha previsto una sostanziale stagnazione economica per il 2019, l’Istat ha, invece, tagliato la stima fatta lo scorso novembre (+1,3 per cento) dicendo che il pil del paese avrà un lieve aumento (+ 0,3 per cento) con lo stimolo ai consumi interni che verrà da misure come il reddito di cittadinanza. Peccato, però, che tale contributo è talmente scarso da non riuscire a controbilanciare l’indebolimento della domanda estera provocato proprio dal calo del commercio internazionale e dal possibile peggioramento delle condizioni creditizie legato all’aumento dell’incertezza politica. In altre parole, la riduzione del volume delle importazioni ed esportazioni in atto a livello globale rischia di diventare un problema per i governi sovranisti perché indebolisce il sostegno della domanda estera al pil. “L’economia italiana ha un potenziale di crescita in grave ritardo rispetto alla media dell’Eurozona. Questo dipende da fattori come demografia, investimenti e organizzazione industriale. Ogni governo in carica dovrebbe lavorare su questi fattori in modo da garantire la traiettoria sostenibile del debito pubblico”, conclude l’analista.

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