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La clava di Trump sulle auto europee manda in crisi l'identità tedesca

Ugo Bertone

Il presidente prende altri sei mesi per decidere se imporre i dazi alle importazioni. In Europa intanto le vendite continuano a diminuire

Milano. Sei mesi di tempo per ridurre volontariamente (si fa per dire) l’esportazione di auto europee e giapponesi negli Stati Uniti. Poi, a frenare le vendite di Bmw e Toyota ci penserà Donald Trump in persona che venerdì ha dato istruzioni a Robert Lightizer, per ora impegnato nel braccio di ferro sui dazi con Pechino, perché presenti il conto. Una mossa imperiale, che il presidente giustifica così: “Prendiamo atto che l’import di auto e componenti ha ormai raggiunto tali dimensioni da presentare un rischio per la sicurezza del nostro paese”. Facile prevedere che Bruxelles cercherà di reagire al diktat di Trump, anche facendo ricorso al tribunale del Wto. Ma la sfida parte in salita. Un po’ perché a trattare sarà la vecchia Commissione, prima dell’insediamento del nuovo esecutivo di Bruxelles. Un po’ perché Trump, spostando l’ultimatum a ridosso dell’anno elettorale, sa di potere contare su un buon motivo di propaganda negli stati del Midwest, dove operano Ford e General Motors, ma anche di poter guadagnare consensi nel sud, Alabama in testa, se tedeschi e giapponesi concentreranno da quelle parti gli investimenti necessari per vendere in America dribblando i dazi del presidente.

 

Una scelta obbligata, anche perché l’Europa continua a deludere. Ad aprile, per l’ottavo mese di fila, le vendite di auto nel Vecchio continente hanno registrato un calo: 1,344.863 pezzi, ovvero lo 0,5 per cento in meno, una lenta erosione cui contribuiscono diversi fattori, dalla rivoluzione delle regole a tutela dell’ambiente all’avanzata dell’elettrico e i costi da sopportare per non perdere il passo sul tema della guida autonoma. Certo, la sfida riguarda tutti i protagonisti, compresa Fiat-Chrysler, comunque sempre più americana. Ma assume un sapore particolare, anche sul piano psicologico, per la Germania. In realtà l’economia tedesca basa ancor oggi la sua leadership sull’eccellenza tecnica conquistata in passato e difesa con cura grazie al primato delle scuole professionali o della ricerca applicata, piuttosto che nel sostegno incondizionato della politica sia ai grandi dell’auto, anche a danno di altre esigenze. “Non è certo per caso – ha scritto sul Financial Times Wolfgang Münchau – che la Germania sia l’unico paese dove non esistono limiti di velocità in autostrada”. Di qui un primato incontrastato nell’età della meccanica che dura da più di un secolo: il motore montato sulla Mercedes è ancora oggi un parente stretto del propulsore brevettato dall’ingegner Karl Benz a fine Ottocento. Ma questi primati, ai tempi dell’auto elettrica, sono inesorabilmente invecchiati.

 

La Germania, come gli altri produttori europei, è costretta ad inseguire sul fronte dell’auto elettrica, a partire dal gap strategico nella produzione delle batterie che alimentano l’auto elettrici mentre molti brevetti del ‘900 rischiano di perder valore. “La Germania ha fallito l’appuntamento con il XXI° secolo – commenta Münchau – L’ultimo brand di successo lanciato oltre Reno è Sap, fondata nel 1972, poco meno di cinquanta anni fa”. E’ un’accusa che accomuna un po’ tutta l’industria europea ma che serve a sottolineare la fragilità, in prospettiva, della locomotiva industriale d’Europa, che pure ha già avviato la sua rincorsa. Tra le critiche degli azionisti, non si sa se più preoccupati per il calo dei profitti, insidiati dal calo delle vendite, dalle pesanti multe e dei forti investimenti, o se più offesi per il declino della supremazia tecnologica made in Deutschland. “Dove sono i modelli vincenti per il futuro – ha detto ieri all’assemblea dei soci di Bmw Daniela Bergdolt, presidente dell’associazione dei piccoli azionisti del colosso bavarese – Sì, nell’elettrico abbiamo tirato fuori iNext e altre vetture interessanti. Ma niente che sia all’altezza della nostra fama, qualcosa che possa fare paura a Tesla”. E adesso si mette di mezzo pure Trump.

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