Lo stabilimento Fca di Melfi. Foto LaPresse

L'Italia affonda in un occidente che ha perso la guida dell'Auto

Maria Carla Sicilia

La produzione industriale nazionale è in lieve ripresa ma l'automotive soffre. Il ruolo di una politica industriale europea che barcolla e insegue il modello cinese

Roma. Il lieve aumento della produzione industriale registrata dall’Istat a febbraio (più 0,8 per cento rispetto al mese prima) è un segnale positivo, ma non deve mettere in ombra i dati più preoccupanti che riguardano la filiera automobilistica. La produzione di autoveicoli in Italia è diminuita dell’11 per cento a febbraio su base annua e nella media dei primi due mesi la flessione tendenziale è del 18 per cento, come dicono i dati preliminari di Anfia. La produzione di automobili unita a quella di componenti nel mese febbraio è calata invece del 6,9 per cento rispetto a gennaio perché la componentistica serve sia il mercato interno sia quello internazionale. La preoccupazione per lo stato di salute del settore è giustificata dalla tendenza negativa dei mesi precedenti. La flessione della produzione dell’industria automotive italiana nel suo insieme va avanti dal secondo semestre dell’anno scorso: da luglio fino a dicembre 2018 ci sono stati sei cali consecutivi, che da novembre sono diventati a doppia cifra. Anche il mercato domestico è in difficoltà e le immatricolazioni sono state negative per tutto il primo trimestre (-6,5 per cento).

   

Un rapporto recente del centro studi della Fondazione Ergo spiega bene la dipendenza del comparto nazionale dalle dinamiche globali. Secondo lo studio, i volumi delle autovetture destinate all’estero hanno rappresentato il 56 per cento della produzione domestica e anche il valore delle esportazioni dei componenti è in crescita, con un saldo commerciale positivo di circa 5,7 miliardi di euro. L’Europa (in particolare la Germania) è mercato principale verso cui si muovono le produzioni italiane, ma è cresciuto anche il flusso verso gli Stati Uniti. Nel 2018 si è invece più che dimezzato l’export verso la Cina, primo mercato al mondo nonostante i segnali negativi degli ultimi mesi. Sullo sfondo, quello che resta è un’Europa zoppicante. Il segnale della debolezza europea non è tanto il calo della produzione quanto “il crollo del suo peso nel confronto mondiale”, scrivono gli autori del rapporto.

  

I fattori che mettono in difficoltà il settore sono diversi – come le incertezze legate alla Brexit e ai dazi americani – ma è interessante notare come alcuni sembrano invece autoinflitti. Gli interventi normativi di Bruxelles e il declino del diesel ne sono un esempio e a soffrirne di più è l’industria tedesca, che dalla fine dello scorso anno ha iniziato a rallentare sia dal punto di vista della produzione sia delle vendite. Un evento che di riflesso coinvolge tutta la filiera europea e quella italiana in particolare, legata per via dell’export di componentistica e per la presenza di partecipate tedesche nell’automotive nazionale (il 4,8 per cento del fatturato totale del comparto). L’altro tema, strettamente legato, è quello del ritardo nella decarbonizzazione, che si è tradotto in una ricorsa del modello cinese tutto incentrato sull’elettrico. Ora è la stessa Germania che ambisce alla leadership europea e dopo avere progettato investimenti di circa 40 miliardi di euro nei prossimi due anni per sostenere le vendite di auto elettriche, Berlino cerca collaborazioni anche per far nascere un “campione europeo” delle batterie.

  

“L’Europa – si legge nel report della Fondazione Ergo – come su mille altri obiettivi, non ha fatto fronte comune. Il risultato è l’ennesima affannosa rincorsa sull’elettrificazione con investimenti miliardari delle varie case senza che venga affrontato il nodo principale che impedisce all’automotive europeo di svolgere un ruolo guida mondiale: chi costruisce auto in Europa o brucia capitali o guadagna pochissimo, perché nel Vecchio Continente c’è una enorme e ormai cronica sovracapacità produttiva”. Dimenticarsi di questo sposando una transizione che fissa obiettivi non compatibili con quello che l’industria europea produce rischia di diventare un boomerang.