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L'Italia che va spiegata con vino e design

Stefano Cingolani

Innovazione e lotta contro il protezionismo. Per sostenere le eccellenze nazionali non bisogna gridare prima gli italiani ma occorre creare le condizioni per rendere più aperta ed equa la concorrenza. Da Milano a Verona: indagine sull’altra Italia

Com’è dura la vita per il pecorino, in questi tempi di populismo rampante. Non bastavano i pastori sardi, adesso è entrato nell’ovile anche il pastore in capo del gregge occidentale. Dazi, dazi e ancora dazi, Donald Trump vuole gabellare prodotti europei per ben 11 miliardi di dollari: c’è di tutto elicotteri, Airbus, burro, pesce e anche il romanesco pecorino. Meglio cambiare, gli italiani nella loro destrezza manifatturiera sono pronti a passare al caciocavallo. Attenti, però, facciamo presto, perché c’è il rischio che venga preso per uno stallone dell’Arizona. E allora America First. Alla furia protezionista non sfugge l’olio né (tanto meno) il buon vino, “sostegno e gloria d’umanità” (insieme alle femmine, cantava Don Giovanni). Eh sì, è dura la vita anche per il vino, a cominciare dal prosecco un boom mondiale che ha dell’incredibile, un’altra testimonianza di che cosa sanno fare gli italiani quando mettono insieme produzione, marketing, innovazione di processo e di prodotto, conquista di nuovi mercati. Vinitaly, la grande fiera veronese celebra una eccellenza assoluta, come si suol dire. Primi al mondo non più solo in quantità, ma in qualità. I vigneti italiani costano come un’isola caraibica con quotazioni che salgono dal milione di euro per Brunello e Prosecco fino ai 2,5 milioni di euro nel caso del Barolo. Il prezzo di un’isola alle Bahamas va dai 700 milioni per tre acri deserti ai 70 milioni. E’ vero stiamo parlando di gioielli non di uve, tuttavia anche il valore medio è molto elevato: più di 50 mila euro.

 

Un prezzo così alto è in questo caso segno di successo del prodotto più che di scarsità della terra. A differenza dal cacio non ci sono altri cavalli da cavalcare, bisogna tenere botta, rispondere colpo su colpo bisogna che si metta in moto quel che si chiama sistema paese e che non esiste, in un paese così poco sistemico. La miriade di produttori è una ricchezza, ma quando si passa ai confronti internazionali, si vede che le aziende italiane sono nane rispetto alle gigantesse americane, francesi, spagnole, australiane. Dunque, non resta che mettersi insieme e crescere. Il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani, ha annunciato un accordo con un partner cinese per una piattaforma di promozione del vino italiano. Il memorandum d’intenti sulla Via della Seta menzionava gli agrumi da spedire in aereo nella patria degli agrumi. Ma a Xi Jinping piace soprattutto il vino francese e proprio dall’astuzia gallica arriva una delle insidie principali. La Cina e l’America sono i due mercati ai quali tutti guardano, è lì che si vince la guerra di mercato anche per il divin nettare. Ed è lì che si sono lanciati i novelli Vercingetorige, tanto più dopo che Luigi Di Maio ha indossato il gilet giallo (sotto non sopra la giacchetta) e Matteo Salvini vuol convolare a nozze (politiche) con Marine Le Pen (è in arrivo una felpa con la Marianna di destra?).

 

Uno dei più noti produttori italiani, così, lancia l’allarme: “Facciamo attenzione ai francesi – ha detto dal palco veronese Angelo Gaja – che si stanno riposizionando in maniera aggressiva per occupare sempre più spazio”. La sua ricetta, però, non è chiudere le botti né, tanto meno, le frontiere. Gaja propone esattamente il contrario: “Non sarebbe il caso di immaginare una joint con Vinexpo, la principale manifestazione sul vino francese?”. Per difendere, sostenere e rilanciare una eccellenza nazionale, non bisogna gridare ai quattro venti “prima gli italiani”, né si tratta di imporre gabelle o creare impalcature stataliste salvando quel che non è salvabile. Occorre, invece, creare le condizioni per rendere più efficace, aperta ed equa la concorrenza. Il vino italiano alla pari con quello francese su un mercato libero e ben regolato. I populisti non hanno risposte, al contrario dei vituperati mercatisti. La politica deve fare il suo mestiere, è ovvio, ma non sostituirsi a chi fa un altro mestiere e lo fa bene.

 

Dura è la vita anche per il design. Come il vino, è un settore di punta, anche lui “vanto e gloria delle italiche muse” (avrebbe scritto Torquato Tasso) e come per il vino viene onorato questa settimana a Milano. Quello che una volta era il glorioso Salone del mobile oggi ha indossato vesti nuove, ma non è affatto una mera operazione d’immagine. La moda ci ha messo lo zampino, accompagnando ed esaltando la creatività di un’arte e una tecnica grazie alla quale l’Italia ha costruito parte della sua modernità dal Moma di New York alla più familiare delle abitazioni nell’altro emisfero. La chiave di tutto, però, è l’innovazione. Il centro studi di FederlegnoArredo, l’organizzazione imprenditoriale, calcola che le 30 mila aziende del settore hanno chiuso il 2018 con un aumento della produzione dell’1,9 per cento, più del doppio rispetto all’andamento del prodotto lordo italiano. Dunque, la ripresa, cominciata nel 2015 non si è ancora spenta. Ma è chiaro che il rallentamento della domanda internazionale, soprattutto in Europa, avrà una ricaduta negativa. Le esportazioni sono pari al 53 per cento dell’intero fatturato di 27,4 miliardi di euro. L’Italia è il terzo esportatore mondiale in questo campo dopo Germania e Cina. Ma, anziché attendere l’acquazzone e, magari, limitarsi ad aprire l’ombrello, il mondo del design intende reagire (questo l’obiettivo che emerge dalla settimana milanese) innovando. Gli altri concorrenti non stanno certo a guardare. Francia e Germania si confermano i primi mercati e ancora tengono, sia pur in frenata. (segue a pagina quattro)

 

La competizione si fa sempre più intensa e allora bisogna investire, molto e bene. Il presidente della federazione, Emanuele Orsini, sostiene che Industria 4.0 ha raddoppiato gli investimenti. Il governo gialloverde ha prima cancellato i super-incentivi (Di Maio ministro del cosiddetto sviluppo voleva fare un dispetto a Carlo Calenda), poi li ha ripristinati con l’ultimo decreto, intanto sono trascorsi nove mesi di tira e molla, di chiacchiere e proclami, senza costrutto. Il vino e il pecorino, i mobili e il design, ma l’elenco può allungarsi come il catalogo di Leporello, perché il populismo rampa, ruspa, ma non quaglia.

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