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Poveri ma ricchi

Stefano Cingolani

Case e investimenti finanziari: le famiglie italiane hanno un tesoro nascosto. Che non aiuta il paese a crescere e non crea lavoro. E anche la Bundesbank, oltre a Landini, vorrebbe una patrimoniale

"Sono preoccupata per mio figlio”. Ci conosciamo da molto tempo, abbiamo anche lavorato insieme poi ci siamo persi e ritrovati. E a ogni nostro incontro, lei batte sul tasto che più l’addolora. “Non trova lavoro, che ne sarà del suo futuro?”, chiede a se stessa e al mondo, perché io non saprei darle risposta. L’ultima volta che ci siamo visti è toccato a me evocare la sua angoscia. “Sono sempre molto preoccupata, ma almeno adesso ha qualcosa per tirare avanti”. Bene. Che cosa, un lavoretto, un impiego a progetto, o magari, perché no, il reddito di cittadinanza (una cosa è essere ideologicamente contro, tutt’altra rifiutarlo)? “No, sai, è laureato e non può mica fare qualunque cosa”. Beh, una laurea in Antropologia culturale non trova molti sbocchi professionali. “Certo, ma l’economia gli fa ribrezzo, per la matematica non è portato… e poi nella vita bisogna pur rispettare le proprie inclinazioni”. E allora? “Allora ho sacrificato la buonuscita per sistemare la casetta in Umbria, quella lasciatami da mamma. L’ho trasformata in un bed & breakfast e lui riscuote l’affitto. Non è molto, però più del reddito di cittadinanza e, comunque, non è costretto a fare il precario”. Per amicizia non le chiedo se l’affitto è in nero, chissà se anche lei fa parte di quella metà dei B&B che non paga le tasse. Non lo so e non lo voglio sapere. Una cosa, però, mi è chiara: suo figlio è povero, ma ricco; anzi può essere un simbolo di questa Italia povera e ricca allo stesso tempo. Che c’è di male a fare l’affittacamere, si dirà, è un mestiere vecchio come le città, grandi scrittori, Honoré de Balzac, Charles Dickens o Fëdor Dostoevskij li hanno trasformati in topos letterari. E’ vero, ma nei loro romanzi i giovani si battevano per la gloria, l’amore, il profitto, lasciando ai vecchi vivere di rendita. In Italia, qui e oggi, invece…

  

L’Ocse ha fotografato un paese fermo da vent’anni, con un reddito pro capite addirittura inferiore a quello del 2000

La stagnazione aumenta le diseguaglianze, rafforza la società della rendita con tutte le sue conseguenze sociali e politiche

L’Ocse ha fotografato un paese fermo da vent’anni, con un reddito pro capite addirittura inferiore a quello del 2000. E’ il ritratto del ristagno, della produttività zero, della scarsa partecipazione al lavoro. Eppure, l’altra faccia della medaglia ci mostra la bella cifra di 10.700 miliardi di euro, tra case (6.300 miliardi, 100 mila euro a testa) e investimenti finanziari (4.400 miliardi, 74 mila pro capite), secondo le stime. “Alla fine del 2017 si stima che la ricchezza reale lorda era 5,5 volte il reddito disponibile, con le abitazioni che contavano per 4,6 volte. La ricchezza finanziaria era 3,8 volte il reddito disponibile. La ricchezza totale lorda delle famiglie era quindi circa 9,3 volte il reddito disponibile e la ricchezza totale netta 8,5 volte”, spiegano Diego Caprara, Riccardo De Bonis e Luigi Infante della Banca d’Italia. Il debito pubblico finora accumulato ammonta a 2.358 miliardi; in teoria, impiegando appena un quinto della ricchezza totale verrebbe azzerato. Ipotesi assurda ancor più che astratta.

 

Dove sta tutta questa ricchezza e che cosa ci facciamo? Perché non si traduce in sviluppo economico? Perché non togliamo qualcosa ai ricchi per dare qualcosa in più ai poveri? Lo propone Maurizio Landini e questo non fa notizia. Lo dice, però, anche l’economista Karsten Wendorff, responsabile del dipartimento finanza pubblica alla Bundesbank. Sì, anche questo dovevamo vedere, il capo della Cgil d’accordo con la Banca centrale tedesca, ovvero la strega che i populisti vorrebbero bruciare sulla pubblica piazza. Eppure entrambi vogliono una bella imposta patrimoniale e Wendorff l’ha anche quantificata: le famiglie italiane, secondo i dati riportati da uno studio della stessa Bundesbank, hanno un patrimonio medio pari a tre volte una famiglia tedesca; un taglio del 20 per cento, et voilà, i conti tornano e l’Italia riparte.

 

“Wendorff parla genericamente di patrimonio netto degli italiani. Da questa definizione, però, bisogna togliere gli immobili. Impensabile un prelievo forzoso del 20 per cento sul mattone a meno di non volere le piazze invase di forconi”, ha scritto sul Sole 24 Ore il finanziere e immobiliarista Ernesto Preatoni, l’uomo che aveva inventato Sharm el Sheik sul Mar Rosso prima che il terrorismo islamico la prendesse a bersaglio. Dunque, bisogna concentrarsi sulla ricchezza finanziaria. Un quinto, sotto forma di titoli di solidarietà equivale a 880 miliardi. Dove prenderli? Duecentottanta miliardi potrebbero arrivare drenando i conti correnti che ammontano a oltre 1.400 miliardi. Restano 600 miliardi che andrebbero prelevati dal portafoglio titoli: obbligazioni italiane ed estere, Btp, azioni e via elencando. Che cosa accadrebbe a fronte di un’ondata di vendite così massiccia? Le quotazioni crollerebbero di colpo e si provocherebbe un gigantesco panic selling. Non solo: l’effetto sull’economia interna di un tale salasso sarebbe devastante. La patrimoniale, insomma, è una cura peggiore del male. Ancor più perché la crisi ha intaccato i patrimoni, interrompendo la lunga fase ascendente.

 

C’è una radicata convinzione che l’euro abbia colpito, dimezzato dicono i populisti, la ricchezza degli italiani. La nuova moneta europea ha cominciato a circolare nel 2002, la lunga recessione italiana è finita nel 2014 poi è arrivata la lenta e faticosa ripresa. Il valore delle abitazioni in quel periodo è salito secondo Bankitalia da 3.172 a 4.952 miliardi. Bisogna aggiungere poi gioielli, abitazioni non residenziali, tutti gli altri beni che formano la ricchezza materiale, e si va da 3.788 a 5.848 miliardi. Altro che dimezzata. La lunga recessione è la grande discriminante, non l’introduzione dell’euro. Ma ha colpito redditi e risparmi, molto meno immobili e terreni, anche se i loro prezzi sono diminuiti.

 

“La ricchezza reale – spiega ancora la ricerca della Banca d’Italia – è sempre stata superiore alla ricchezza finanziaria, salvo che nella seconda parte degli anni Novanta del Novecento, contraddistinti dal boom di Borsa della ‘new economy’. Dai primi anni Duemila i due aggregati hanno avuto andamenti diversi. Le attività finanziarie sono aumentate fino al 2006: la crisi globale e quella dei debiti sovrani hanno interrotto la loro crescita e la ripresa dopo il 2011 non le ha ancora riportate ai valori del 2006. Al contrario, il rapporto tra ricchezza reale e reddito disponibile è cresciuto fino al 2012, per poi diminuire per effetto della discesa dei prezzi delle case”. La ricchezza reale rimane più grande di quella finanziaria in Italia, in Spagna e in Francia. I due aggregati sono equivalenti nel Regno Unito. Invece, negli Stati Uniti, nel Canada, in Giappone e in Germania la ricchezza reale delle famiglie è più piccola di quella finanziaria. In Germania una bassa percentuale della popolazione vive in case di proprietà, per la diffusione del social housing, per una dinamica dei prezzi delle abitazioni più moderata, anche per l’assenza del boom del credito alle famiglie che aveva investito gli altri paesi europei fino alla crisi globale.

 

Come sono andate le cose negli ultimi vent’anni? Tra il 1995 e il 2017 la ricchezza finanziaria, in rapporto al reddito disponibile, ha attraversato diverse fasi, riflesso della congiuntura e degli choc che hanno colpito le economie. Una forte crescita si è avuta tra il 1995 e il 2000, in relazione allo sviluppo della “new economy” e all’espansione del mercato azionario. Con l’esplosione della bolla speculativa nel 2001, la ricchezza finanziaria lorda si è contratta fino al 2002. Un recupero, favorito dalla politica monetaria espansiva della Federal Reserve, s’è visto dal 2004 al 2006. Poi è arrivata la Grande Recessione e la caduta è durata fino al fatidico 2011 quando l’Italia ha rischiaro di fallire. Con la ripresa, in gran parte dei paesi la ricchezza finanziaria delle famiglie ha superato i livelli raggiunti prima della crisi globale. L’Italia è un’eccezione, infatti resta ancora sotto il picco raggiunto nel 2006. L’indice di Piazza Affari è cresciuto meno della media internazionale e il rapporto tra capitalizzazione di Borsa e prodotto lordo rimane il più basso. Sia chiaro, non siamo sfuggiti alla finanziarizzazione dell’economia, ma siamo rimasti a metà strada tra i paesi anglosassoni e quelli dell’Europa continentale. Con un rapporto pari a 3,8 l’Italia raggiunge la Francia, supera Spagna e Germania, restando però molto al di sotto di Stati Uniti, Giappone, Regno Unito e Canada, dove la ricchezza finanziaria è più di cinque volte oltre il reddito disponibile.

 

Anche se la crisi ha colpito duramente i risparmi, passati da un valore medio del 15,7 per cento del reddito disponibile nel periodo 1995-2008, al 10,7 per cento tra il 2009 e il 2016, l’Italia ha una carta in più: i debiti delle famiglie sono modesti rispetto a quelli degli altri paesi avanzati. E anche questo contraddice i luoghi comuni populisti (ricordate la campagna sui suicidi per debiti ai tempi del governo Renzi?). Nel loro insieme, le passività ammontano a 900 miliardi; pur passando dal 36 per cento del 1995 all’80 per cento del reddito disponibile del 2017, rimangono le più basse rispetto ai paesi industrializzati nei quali l’aumento è stato molto marcato tra il 1995 e il 2007, soprattutto in Spagna, dove il rapporto è balzato dal 45 per cento del reddito disponibile nel 1995 a quasi il 145 per cento nel 2007. L’incremento è stato forte anche in Canada, Regno Unito e Stati Uniti. Dopo la crisi finanziaria globale è cominciata quella che gli economisti chiamano riduzione dell’effetto leva, quindi il rapporto tra il debito delle famiglie e il reddito disponibile si è contratto in Spagna, Regno Unito e Stati Uniti. Invece continua a crescere in Francia e, soprattutto, in Canada, dove oggi sfiora il 170 per cento del reddito disponibile.

 

L’altra faccia della medaglia: 10.700 miliardi di euro, tra case (6.300 miliardi) e investimenti finanziari (4.400 miliardi)

La lunga recessione è la grande discriminante, non l’euro. Ma ha colpito redditi e risparmi, molto meno immobili e terreni

Gli italiani, dunque, non sono cicale, ma il grande svantaggio è che tengono i loro averi sotto il materasso, o meglio, nel mattone, come abbiamo visto. Ciò ha un impatto notevole sugli investimenti, sulle imprese, sulla disponibilità interna di risorse. C’è poco capitale impiegato nella produzione e c’è anche poco lavoro. Il tasso di attività, cioè il rapporto tra gli occupati e le persone in età lavorativa (da 15 anni alla pensione) è al 67 per cento, dieci punti in meno della media europea, ma quello femminile è ancora più basso, al 55 per cento, collocando l’Italia al penultimo posto in Europa, di poco sopra alla Grecia. Eppure non si trovano artigiani, operai, tecnici, ingegneri e persino medici tanto che il Veneto è dovuto ricorrere a una misura clamorosa: richiamare i pensionati. Questo mentre partono le pensioni anticipate. Il leghista Luca Zaia si è reso conto quanto sia sballato il cavallo di battaglia del suo “capitano” Matteo Salvini, anche se non osa dirlo. Il Foglio è stato il solo giornale a parlare di questo fenomeno ben due anni fa, adesso tutti se ne sono accorti.

 

Fin qui abbiamo ragionato su medie statistiche. E la distribuzione? A chi è andata la ricchezza esistente? Il patrimonio è sempre stato più sperequato rispetto al reddito. E’ l’eredità della storia, ma anche la conseguenza di politiche fiscali in genere meno progressive. Tuttavia, la grande trasformazione nella seconda metà del ‘900 è coincisa con l’emergere di una classe media non solo in termini di reddito, ma di patrimonio. Un fenomeno complesso nel quale interagiscono fattori economici, istituzionali, politici, una tendenza che parte dagli Stati Uniti, storicamente meno ineguali della Francia o della Svezia, paese di grandi latifondi dove la terra passa ancor oggi all’erede maschio. La società pre-industriale era la più iniqua anche dal punto di vista patrimoniale. L’800 resta ancora in bilico tra vecchio e nuovo; dalla seconda metà del ‘900 il capitalismo diventa di massa e il sogno americano si fa universale. Questo processo sembra essersi arrestato. Quando e perché? Secondo alcuni, sia nella destra sovranista sia all’estrema sinistra, s’è fermato per colpa della globalizzazione e del neoliberismo. Altri sostengono che è la grande crisi ad aver aperto una vera cesura tra chi ha e chi non ha. Ma persino Thomas Piketty, gran fautore di una imposta addirittura mondiale sulla ricchezza, ammette che il fattore chiave si chiama crescita. La stagnazione aumenta le diseguaglianze, rafforza la società della rendita con tutte le sue conseguenze sociali e politiche. L’Italia è il laboratorio migliore per osservare all’opera questo squilibrio fondamentale. Qui la ricchezza accumulata stenta a entrare in circolazione per generare un aumento dei redditi e una migliore distribuzione. Quel capitale congelato al punto da diventare rendita di posizione, si rispecchia nel congelamento del fattore lavoro così che i dioscuri della produzione si bloccano a vicenda e danno vita a una società ibernata dove prevale l’istinto di conservazione, dove si chiede di distribuire prima ancora di produrre, e dove si genera una classe politica che risponde a questa spinta di fondo. Tutta la politica del governo gialloverde consiste nell’appropriarsi di quel che c’è oggi, anziché progettare il domani.

 

L’Italia che ristagna, che produce poco, anzi meno di dieci anni fa, è diventata un paese di redditieri, piccoli e grandi. Il rischio può essere accentuato dalla ideologia anti-produttiva e da un rifiuto del lavoro che sottende sia il reddito di cittadinanza (quello vero, che vorrebbe essere un sostituto del reddito da produzione) sia il culto della pensione. Quando Matteo Salvini dice “abbiamo liberato dal lavoro migliaia di persone”, anziché “abbiamo dato lavoro”, tradisce categorie mentali da estremismo dei centri sociali, che lo avvicinano al populismo pentastellato e lo allontanano non solo da operai e impiegati, ma persino dal “popolo delle partite Iva”. Al contrario del luogo comune, la passata generazione non ha lasciato solo montagne di debiti, ma soprattutto una quantità di beni mobili e immobili come mai nel passato. Il problema è che i figli consumano questa enorme eredità anziché accrescerla, perché i padri non hanno trasmesso loro il bene più importante: la cultura del lavoro sulla quale si costruisce, diceva il vecchio e insuperato Adam Smith, la ricchezza delle nazioni.

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