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Come non finire in un mare di dazi amari

Claudio Cerasa

Lo scazzo tra Stati Uniti ed Europa sulla web tax è una gran lezione sui danni del protezionismo

Un paese immerso nella globalizzazione come fa a non finire in un mare di dazi amari? Le tensioni diplomatiche tra gli Stati Uniti e l’Europa non riguardano solo le spericolate triangolazioni di alcuni paesi dell’Unione europea con la Cina sul futuro delle infrastrutture strategiche, ma anche un altro dossier altrettanto delicato e non molto valorizzato sui giornali italiani: il futuro della web tax.

 

La web tax è una legge che punta a chiedere alle grandi multinazionali americane che fatturano attraverso i servizi offerti sulla rete una forma di tassazione aggiuntiva per garantire, secondo i sostenitori di questa tassa, maggiore equità fiscale, maggiore giustizia sociale e una forma più appropriata di concorrenza. In Europa, negli ultimi mesi, il tema della web tax è stato affrontato da alcuni parlamenti che hanno presentato singolarmente diverse leggi per provare a tassare le multinazionali del digitale: l’Italia, con la manovra 2019, ha introdotto una web tax del 3 per cento sui ricavi delle aziende con un fatturato globale oltre i 750 milioni di euro e con ricavi generati nel nostro paese superiori ai 5,5 milioni; la Francia sta discutendo una legge che prevede un’imposta del 3 per cento per le aziende che superano i 750 milioni di euro di ricavi annui totali e i 25 milioni di ricavi in Francia; la Gran Bretagna ha varato un’imposta al 2 per cento sul fatturato che entrerà in vigore ad aprile 2020; la Spagna, poco prima che cadesse il governo, ha discusso in Parlamento di una tassa del 3 per cento che dovrebbe essere applicata alle grandi imprese il cui fatturato superi i 750 milioni di euro a livello mondiale e i 3 milioni in Spagna.

 

La ragione per cui oggi parliamo di web tax, però, non è legata al passato ma è legata al presente e a due notizie succose di questa settimana. La prima notizia è insieme tecnica e politica: martedì scorso l’Ecofin, l’organo del Consiglio europeo che mette insieme i ministri delle Finanze degli stati membri, ha bocciato una proposta franco-tedesca per sviluppare una web tax a livello europeo. La seconda notizia è insieme culturale e diplomatica e coincide con la dura reazione arrivata dall’Amministrazione americana rispetto alla possibilità che alcuni paesi europei portino avanti una politica di dazi (ops) contro alcune aziende americane.

 

Chip Harter, il principale funzionario fiscale internazionale del Tesoro degli Stati Uniti, tre giorni fa ha chiesto prudenza, ha definito “mal concepite” le web tax europee, ha ricordato che “gli Stati Uniti si oppongono a qualsiasi proposta fiscale sui servizi digitali”, ha affermato di considerare le web tax sul modello europeo “altamente discriminatorie nei confronti delle imprese statunitensi” e ha minacciato di fare ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio per difendere le proprie aziende. La stessa posizione, pochi giorni fa, il 12 marzo, l’ha esplicitata nel corso di un dibattito alla commissione Finanze del Senato Robert Lighthizer, il rappresentante al Commercio dell’Amministrazione americana, che ha condannato i paesi europei intenzionati a promuovere leggi sulla web tax per via di un approccio considerato errato: quando si parla di tasse, è il senso del ragionamento di Lighthizer, occorre parlarne non con un approccio bilaterale, stato contro stato, ma con un approccio multilaterale, e il luogo giusto in cui discutere della web tax è l’Ocse. Lighthizer non è un personaggio come tutti gli altri: è l’architetto della politica commerciale americana, è lo stesso che pochi giorni fa ha rivendicato il diritto da parte degli Stati Uniti di non privarsi nei rapporti con la Cina dello strumento di pressione costituito dai dazi, e in questo senso la partita della web tax ci permette di ragionare su due questioni non proprio irrilevanti. 

 

La prima è legata al riconoscimento indiretto da parte degli Stati Uniti di un problema che Stefano Ricucci avrebbe definito nel modo rozzo ma efficace che tutti ricorderete (facile fare i froci con il culo degli altri): la globalizzazione non si governa a colpi di dazi ma a colpi di accordi. La seconda questione è legata invece a un altro tema interessante che riguarda la soluzione immaginata dagli Stati Uniti per risolvere il problema di fondo della web tax. Un problema ammesso ormai dalle stesse multinazionali digitali: nell’economia della rete il valore di un prodotto non è legato a monte solo alla fase di produzione ma anche all’interazione a valle degli utenti, e per questo il tema (vero) della web tax è quantificare questo valore usando una logica redistributiva e non punitiva.

 

La ragione per cui gli Stati Uniti si augurano che sia l’Ocse a mettere una parola definitiva su questa partita è legata al fatto che la proposta dell’Ocse è di buon senso e non prevede, come hanno invece proposto Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna, in nome della  tax nation più che della smart nation, una doppia tassazione alle multinazionali digitali (che oltre a pagare le tasse in America effettuano gli adempimenti sull’Iva in tutti i paesi in cui emettono fatture) ma prevede di cercare un modo condiviso per quantificare questo valore aggiuntivo prodotto dall’interazione tra utenti togliendo qualcosa in termini di gettito sulle tasse al paese in cui l’azienda è insediata per redistribuirlo agli altri paesi in cui si trovano i consumatori (se il punto è perseguire maggiore equità fiscale, la sede Ocse è quella giusta; se viceversa l’equità fiscale è un paravento per usare il fisco come strumento di politica industriale, è un altro discorso). Gli Stati Uniti, in altre parole, per tutelare gli interessi delle proprie aziende, ci stanno dicendo che il protezionismo è un danno, che i paesi con la testa sulle spalle non possono permettersi di giocare con il bilateralismo e che i paesi che non scommettono sul multilateralismo e sull’apertura per far funzionare la globalizzazione di solito, direbbe Ricucci, finiscono in un mare di dazi amari.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.