Mark Zuckerberg durante la sua testimonianza al Senato (foto LaPresse)

Un conflitto pubblico e privato

I diritti, la democrazia e l'impero dei social network

Propaganda, gestione dei dati, fake news e bad news: l’universo della comunicazione digitale ha bisogno di regole. Le responsabilità individuali e il ruolo della politica. Un dibattito tra direttori di giornali

Dallo scandalo Cambridge Analytica alla possibile influenza della Russia sulle ultime scelte elettorali: quanto contano i big data nell’informazione in politica”: è stato il tema del dibattito che si è svolto sabato 5 maggio a Dogliani, nell’ambito del Festival della tv e dei nuovi media. Hanno partecipato Mario Calabresi, direttore di Repubblica, Claudio Cerasa, direttore del Foglio, Luigi Contu, direttore dell’Ansa, Lucio Fontana, direttore del Corriere della Sera, Maurizio Molinari, direttore della Stampa. Sarah Varetto, direttore di Sky Tg24, ha moderato l’incontro. Ecco che cosa hanno detto.

 

Varetto: Pechino “condivide i dati con i suoi campioni, come Alibaba o Tencent, di cui si parla poco, ma che in realtà ha un ruolo fondamentale”

Sarah Varetto. Abbiamo visto nell’ultimo periodo l’episodio di Cambridge Analytica, che ha dimostrato tutta la fragilità del sistema del trattamento dei nostri dati da parte dei social media e che ha fatto forse crollare in chi se ne occupava l’incrollabile fede in quelli che sono i servizi gratuiti. Ricordiamoci sempre, peraltro, che quando un servizio è gratuito è perché noi non siamo il cliente di quel servizio, ma siamo il prodotto. La nostra vita, che affidiamo ai social network, in realtà diventa il prodotto che poi viene rivenduto. E ci sono enormi interessi nella difesa della supremazia in questi settori da parte del governo americano, che poco ha fatto per intervenire davvero. Per non parlare poi del governo cinese, che anzi condivide i dati con quelli che sono i suoi campioni, come Alibaba o Tencent, di cui si parla sempre poco, ma che in realtà ha un ruolo fondamentale, dal momento che si occupa di tutto: mette insieme le funzioni di Amazon e di Facebook, ha più di un miliardo di clienti e si sta espandendo in tutta l’Asia. Ecco, l’Europa non avendo per così dire campioni da tutelare, forse può tutelare meglio gli interessi dei cittadini. Forse possiamo vedere in positivo l’assenza di leadership in questi campi…

 

Molinari: “Due le questioni di fondo: la tutela della riservatezza e quindi dei diritti dei cittadini, e la sicurezza nazionale dei governi”

Maurizio Molinari. Le considerazioni di Sarah Varetto toccano al cuore due questioni di fondo: la tutela della riservatezza e quindi dei diritti dei cittadini, e la sicurezza nazionale dei governi. Perché l’assenza di regole o la possibilità da parte di attori cibernetici di sfruttare a proprio vantaggio le nuove tecnologie consente di violare questi due muri. Il vantaggio oggettivo del posizionamento dell’Europa è che il suo carattere terzo rispetto ai grandi giganti digitali, che fondamentalmente sono gli Stati Uniti e la Cina, con il ruolo di concorrente da parte della Russia, può consentire all’Europa di ritagliarsi un suo ruolo. Non c’è dubbio che la nuova normativa che l’Unione europea si darà a partire dal 1° giugno riguardo alla tutela degli individui è sicuramente più avanzata rispetto alle normative parallele che esistono in Nordamerica. Sul piano dei diritti personali, sarà tuttavia una sfida la sua applicazione. Perché di questo dobbiamo essere consapevoli: quando parliamo di declinazione nella realtà virtuale, nel mondo cibernetico, dei diritti personali che esistono nella realtà reale, significa che andiamo verso la creazione di una nuova tipologia di diritti. Come dice Alan Dershowitz, “rights from wrongs”, cioè i diritti nascono dalla violazione dei diritti. Allora, noi siamo di fronte a una stagione di violazione dei diritti della privacy, e la sfida è attingere alla cultura giuridica europea per creare una nuova tipologia di diritti. Molto più difficile è la difesa dell’interesse nazionale, della sicurezza nazionale, perché gli attori cibernetici che operano da paesi come la Russia, la Cina, l’Iran o la Nord Corea hanno l’interesse a ledere la sicurezza nazionale dei nostri paesi, e questo pone nuove sfide che non hanno a che vedere con i diritti degli individui ma con quelli delle nazioni.

 

Varetto. Su questo vorrei coinvolgere Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera. Secondo te, qual è il peso e il potere reale che hanno avuto fino a questo momento questi fenomeni, queste interferenze? Abbiamo visto l’atto d’accusa del procuratore Mueller, la persona che sta indagando sulle possibili interferenze russe nelle elezioni americane che hanno portato alla vittoria di Donald Trump. Lui ha parlato di una “guerra di informazione”, ha usato questa locuzione. Ma su questo ci sono opinioni contrastanti. Recentemente ho letto sul New York Times che un autorevole studio tendeva a ridimensionare l’effettivo peso del fenomeno in alcune competizioni elettorali.

 

“Declinare nella realtà virtuale i diritti personali, significa andare verso la creazione di una nuova tipologia di diritti”

Luciano Fontana. Sì, su questa questione c’è una differenza di interpretazione molto vasta. Sono state fatte analisi, in particolare per quanto riguarda la campagna elettorale del 2016 negli Stati Uniti. Alla fine, il traffico “colpito” da un’azione russa e di account fasulli creati per sostenere la campagna di Trump si è detto che era dello 0,04 per cento, quindi una dimensione molto, molto piccola. In realtà poi ci sono anche altre considerazioni: 230 milioni di elettori targettizzati, ma alla fine quello che ha determinato il voto sono stati 11 mila voti in uno stato, 27 mila in un altro… Andare dentro questa montagna di numeri e capire effettivamente quanto il fenomeno ha spostato e quanto ha determinato, è difficile. Io credo che Trump non abbia vinto per la campagna sui social media organizzata dalla Russia, così come penso, ed è abbastanza facile da verificare, che il Movimento 5 stelle al sud non abbia vinto certo per l’azione dei troll sulla rete: ci sono radici economiche, politiche e sociali che spiegano quel voto. Quello che però deve far riflettere è che normalmente l’azione che viene fatta sui social media, su Facebook in particolare, è un’azione che più che a chiedere un voto serve a creare un clima di rabbia, di protesta, di esasperazione, di esagerazione di temi sensibili come l’immigrazione, i diritti delle donne, la sicurezza. E in questo clima si crea un contesto di destabilizzazione politico-psicologica dell’elettorato, e questo un’influenza sicuramente la può avere. 

 

Fontana: “L’azione che viene fatta sui social media più che a chiedere un voto serve a creare un clima di rabbia, di esasperazione”

Varetto. Ma allora, chiedo a Mario Calabresi, direttore della Repubblica, qual è secondo te lo scopo reale… perché si è detto anche che un po’ stiamo facendo noi un favore a Putin, forse stiamo sovrastimando il fenomeno quando parliamo di una nuova guerra fredda. In fondo ci troviamo di fronte un nemico che almeno dal punto di vista economico in questo momento sembra avere mille difficoltà in patria. E poi ancora: quanto le azioni che sono state in parte dimostrate puntano davvero a portare un risultato o non invece, come sottolineava Fontana, a destabilizzare tout court? 

 

L’impatto di Facebook sul dibattito pubblico: il culmine nelle campagne d’odio orchestrate in oriente. La privacy: abbiamo smesso di considerarla un valore da difendere

 

In Italia, per esempio, durante l’ultima campagna elettorale non si è riusciti a dimostrare una reale influenza di troll o altro su un risultato elettorale o più in generale sulla manipolazione delle opinioni. Quello che si è visto però è che i medesimi account che erano intervenuti in Europa durante Brexit o durante il referendum di Barcellona traducevano parte di post radicalizzati, particolarmente duri sul tema dell’immigrazione.

 

Mario Calabresi. Io farei un passo indietro, per cercare di capire di che cosa stiamo parlando. Tutto parte da quanto oggi i social network – stiamo parlando in gran parte di Facebook, in parte molto minore di Twitter o dell’uso in alcuni paesi di WhatsApp – siano strumenti talmente pervasivi, in grado di arrivare ovunque, che in più occasioni si è ripetuto un dato costante, e cioè che vengono utilizzati, diciamo così, per distorcere il dibattito pubblico. Noi pensiamo soprattutto all’occidente, ma ci sono luoghi dove hanno avuto un impatto fortissimo.  

 

Calabresi: “Obama è stato il primo a utilizzare i big data. Ma finché il messaggio era in positivo, nessuno si è scandalizzato”

Faccio un esempio: c’è stato un solo momento in cui lo stesso Zuckerberg, nella sua testimonianza di fronte al Senato americano, si è dovuto formalmente scusare, perché in Birmania nella persecuzione dei Rohingya, minoranza musulmana che in gran parte è dovuta scappare, l’impatto di Facebook è stato fondamentale. Considerate che in Birmania, come in molte parti del mondo, Facebook e Internet è come se coincidessero: le persone usufruiscono di internet passando attraverso Facebook che media tutto. Bene, su Facebook era partita una campagna molto forte contro i Rohingya e da lì sono cominciate le persecuzioni. A Facebook se ne sono accorti dopi una settimana. Nel mese di febbraio c’è stata nello Sri Lanka una serie di scontri tra aree religiose diverse, e anche qui in parte erano musulmani presi di mira: la campagna di odio dei vari schieramenti era tutta fatta su Facebook, tanto che il governo per fermarla ha spento Facebook per alcuni giorni. Uno dei vicepresidenti di Google che si occupa delle news, Richard Gingras, dice che la rete di per sé è neutra. E’ come l’acciaio, con cui puoi costruire campate per i ponti o armi di distruzione: il problema è come usi il mezzo. Il punto è che il mezzo è potentissimo. Nel 2008 ho seguito la campagna di Obama. Obama è stato il primo a utilizzare i big data, cioè su grande scala i dati che riguardano ognuno di noi, in quel caso gli elettori americani. Se si sapeva che in uno stato era testa a testa tra Obama e McCain, lo staff studiava se in quello stato c’era bisogno di portare a votare di più i giovani e le donne, e studiava soprattutto attraverso i social come parlare ai ragazzi delle università, come parlare alle donne, e si mandavano messaggi che erano stati studiati ad hoc. Per esempio, per sensibilizzare gli studenti universitari al voto: voi oggi pagate troppe tasse, se Obama vince avrete più borse di studio. Che cosa è successo? Che finché il messaggio era in un certo senso in positivo, nessuno si è scandalizzato. Nell’ultima fase – la campagna americana, la Brexit, il referendum in Catalogna – c’è stato invece un incattivimento e questi strumenti sono stati usati in modo fortemente negativo. Qui si inserisce per esempio la presenza dei russi in Europa… negli Stati Uniti è un discorso più largo e complesso. Il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy spiegava che il governo di Madrid ha fatto uno studio su tutto il dibattito che c’è stato sui social nell’ultima settimana del referendum spagnolo: il 95 per cento di tutti i messaggi presenti su Twitter non era prodotto da esseri umani singoli, ma erano messaggi seriali automatizzati, bot, prodotti da macchine. Questi messaggi arrivavano da due paesi: Russia e Venezuela, e avevano tutti una sola intenzione, quella di creare tensione e di alzare il livello dello scontro. Come spiegavano prima Fontana e Molinari, i messaggi che sono entrati in Europa, sulla Brexit erano tutti per la rottura, oppure tendono a scaldare il clima su temi come l’immigrazione… L’accusa che viene mossa ai russi è che hanno interesse a tenere un’Europa in fibrillazione con effetti destabilizzanti, e poi chi ne approfitta ne approfitta.

 


Pubblicità di Google in India (foto LaPresse). Fontana: “Non ho tanta fiducia che in tempi rapidi si possa arrivare a una regolamentazione globale condivisa” 


 

Varetto. Calabresi ha distinto l’uso dei dati personali nella campagna elettorale americana del 2008 rispetto quello che è avvenuto nel 2016 con Trump. Mi rivolgo a Luigi Contu, direttore dell’Ansa: non è che è cambiato anche profondamente il percepito, non è che su questi argomenti si era molto più ingenui sino a una decina di anni fa? In fondo tutta l’Amministrazione Obama lascia crescere i giganti del web: oggi ci sono cinque aziende in America che a Wall Street valgono più di 3.500 miliardi di dollari, e questa crescita esponenziale è avvenuta proprio negli ultimi dieci anni senza che ci sia stata una regolamentazione di alcun tipo. Oggi di fatto sono dei monopolisti, ed è quasi impossibile che nasca un concorrente in queste condizioni di mercato. E allora, non è che in fondo il tema e poi è sempre il medesimo: sono solo due facce della stessa medaglia, stiamo sempre parlando dell’utilizzo di dati personali che io consegno quasi inconsapevolmente?

 

Luigi Contu. Sono d’accordo con l’analisi che è stata fatta fino ad ora. L’utilizzo dei dati è un tema antico: io ho 55 anni, quando ero ragazzo facevo lo scrutatore per guadagnare un po’ di soldi e mi ricordo che nelle sezioni elettorali c’era il rappresentante di lista, quasi sempre quello del Pci che era molto ben organizzato, che veniva a vedere gli elenchi di chi aveva votato, perché così sapeva strada per strada se gli iscritti alla sua sezione erano andati a votare o no, e quelli che non avevano votato li andavano a cercare per sollecitarli a farlo. Erano liste pubbliche, che si potevano chiedere quando si andava a votare: era già un utilizzo del dato.

 

“L’accusa che viene mossa ai russi è che hanno interesse a tenere un’Europa in fibrillazione con effetti destabilizzanti”

Certamente, l’utilizzo del dato di per sé è un rischio, ma poi, come diceva Calabresi, con lo stesso coltello puoi uccidere una persona oppure tagliare una fetta di pane da regalare a chi ha bisogno di sostenersi… Il punto è che noi non possiamo sapere quanto veramente abbia inciso su questa o quell’altra campagna elettorale, e non possiamo non mettere in guardia la democrazia su quanto è a rischio. Guardate che noi forse abbiamo qualche anticorpo in più, ma i bambini, i ragazzi si formano soltanto attraverso il telefonino, soltanto attraverso Facebook. E se arrivano centinaia di messaggi che creano quel clima di paura, di preoccupazione, siamo noi quelli più a rischio. Certamente in Russia, in Turchia, in Cina, dove ci sono regimi autoritari, il rischio è enorme, ma io vedo molto più a rischio il sistema democratico dell’occidente. E’ l’occidente che si deve rendere conto che dentro di sé ha questi cinque signori che hanno un potere smisurato. Viviamo il paradosso che tutti noi – lo dico soprattutto ai giovani – ci illudiamo di partecipare di più mettendo i “like”, il nostro giudizio, e alimentiamo questi dati, Cioè noi pensiamo di avere una partecipazione attiva nella politica, ci illudiamo di influenzare il dibattito politico dicendo la nostra. In realtà, il dato che tu stai mettendo serve a costruire il tuo profilo, che poi un giorno sarà utilizzato per mandarti un messaggio che ti colpirà. L’Europa sta facendo dei passi avanti, e anche in Italia sono stati fatti: non sono sufficienti, però: io credo che ancora una volta ci sia bisogno di una risposta della politica. Se la politica avesse uno sguardo sul futuro, se noi credessimo veramente di essere a rischio, che la democrazia è a rischio, noi dovremmo avere una consapevolezza molto maggiore e creare delle regole, come sono state create per le grandi televisioni, come si è cominciato per la radio. La propaganda è da sempre lo strumento con il quale si vuole influenzare il cittadino, e il cittadino deve essere consapevole, ma chi ha a cuore la democrazia secondo me deve condurre una grandissima battaglia per provare a regolamentare il settore – non a censurare, non a demonizzare, perché è inutile fare battaglie luddiste nel Duemila, però certamente questa è una situazione troppo pericolosa e non controllata.

 

Varetto. Claudio Cerasa, direttore del Foglio: ripartiamo proprio da qui. Bisogna creare un sistema di regole, sottolineava adesso Luigi Contu. In parte, l’abbiamo citato, l’Europa si è data un nuovo regolamento di tutela dei dati e della privacy. Si è detto anche quanto sono ormai diventati enormi questi tech giants, e quanto sia difficile poter andare veramente a incidere…

 

Contu: “Noi forse abbiamo qualche anticorpo in più, ma i ragazzi si formano solo attraverso il telefonino e Facebook”

Insomma, tutti stiamo citando Zuckerberg che va a parlare a Capitol Hill per rispondere ad alcune domande, alcune pertinenti, altre un po’ naïf, si vedeva che non tutti i senatori sapevano bene di che cosa stessero parlando, quindi se l’è anche cavata. Comunque è stato il primo atto forte. Subito dopo il titolo ha ricominciato a correre, sono uscite delle trimestrali da paura, di nuovo stanno continuando a fare soldi a palate, e chi se ne importa dell’audizione a Capitol Hill… Ma allora, se davvero i dati sono l’oro nero della nostra epoca, e se Facebook con oltre due miliardi di utenti che gli hanno consegnato le proprie vite e i propri dati è come la Standard Oil, si può pensare a un nuovo intervento antitrust? Ci sono le condizioni, secondo te? Perché poi l’unica cosa che si possa fare, come ha fatto in passato il capitalismo americano quando ha voluto correggersi, dallo Sherman Act in poi, è uno spezzatino. Qualcuno dice che è il momento di dividere Google, diventato il principale motore di ricerca che la fa da padrone in quell’ambito nella pubblicità: spezzettarlo perché è il solo modo per ridare ossigeno al mercato e anche far sì che ci sia una più equa distribuzione non soltanto degli utili ma anche dei doveri… Faccio solo un ultimo inciso: noi stiamo citando gli utenti di Facebook, quelli che sono registrati. Ma sapete che quando leggete un articolo sul sito del Corriere, di Repubblica, di Sky Tg24, dell’Ansa del Foglio o della Stampa, anche se non siete registrati a Facebook se cliccate un like o meno, immediatamente Facebook è in grado di tracciarvi e di riconoscervi, e costruisce un vostro profilo?

 

Claudio Cerasa. Rispondo velocemente alla domanda ma vorrei introdurre anche un elemento di riflessione in più, perché non c’è dubbio che nei prossimi anni, forse già nei prossimi mesi, l’Antitrust europeo e forse anche qualche altro antitrust darà una lezione esemplare ai giganti della tecnologia. Per i giganti sarà una piccola multa che dovranno pagare, ma sarà simbolicamente importante. Però quando noi parliamo di privacy, di fake news, del modo in cui la tecnologia ha un impatto sulla società, sulla politica, sulla nostra vita, dimentichiamo sempre secondo me di considerare che parliamo a volte della cattiveria, della spregiudicatezza di Facebook ma non parliamo mai di noi.

 

Cerasa: “I movimenti antisistema si affermano anche perché riescono a sfruttare il sentimento di pessimismo che ormai fa breccia nella società”

Sinceramente, quando sento parlare del dramma delle fake news, a me preoccupa più un’altra cosa: il dramma delle bad news, il vero tema sul quale fa leva questa grande macchina delle fake news, questa grande struttura tecnologica che ha sfruttato la nostra debolezza, cioè il fatto che ciascuno di noi, specie i più giovani, non considera più la privacy come qualcosa da difendere. Quindi non è che Facebook faccia qualcosa di clamorosamente grave. Fa qualcosa di grave nel momento in cui non si occupa di difendere alcuni dati concessi a qualcun altro, ma siamo noi che abbiamo scelto di non considerare più la privacy come un valore da difendere. La frase dalla quale abbiamo cominciato, una citazione di Steve Jobs, il quale diceva che nel momento in cui noi diamo i nostri dati, li regaliamo, significa che il prodotto siamo noi. Allora perché secondo me sono più gravi, più importanti da tenere a mente le bad news, cioè le cattive notizie, che le notizie false? Perché le notizie false oggi fanno leva su due dicotomie: la grande sfida universale tra ottimisti e pessimisti e la grande sfida universale tra chi considera ciò che è virale più importante di ciò che è reale. Non è che Trump ha vinto per le fake news o per la propaganda russa, non è che i movimenti antisistema si affermano soltanto perché sono antisistema, perché sono riusciti a sfruttare un sentimento di pessimismo universale che ormai fa veramente breccia nella nostra società. In America se ne parla moltissimo, in Italia un po’ meno, ma stanno uscendo moltissimi libri. David Brooks, Steven Pinker, Gregg Easterbrook, hanno scritto tutti quanti dei libri per spiegare perché la grande dicotomia di oggi è tra chi considera la società come destinata a fallire e quindi non da migliorare ma da cambiare, da sostituire, e chi invece cerca di migliorare gli attuali meccanismi che regolano la nostra vita. A me ha fatto molta impressione quando qualche mese fa sul New York Times Nicholas Kristof, che è un grande commentatore conservatore, ha fatto ai suoi lettori una domanda secca, molto interessante: in ogni singolo giorno della nostra vita quante sono secondo voi le persone che vivono in una condizione di povertà? Tre diverse risposte. Prima risposta: crescono di cinquemila unità al giorno a causa dei cambiamenti climatici, la corruzione dilagante, la scarsità di cibo nel mondo. Seconda risposta: il numero di poveri non cambia da un giorno all’altro. Terza risposta: in ogni singolo giorno della nostra vita, le persone che nel mondo escono da una condizione di povertà assoluta sono 250 mila. Tutti quanti noi in maniera istintiva saremmo portati a pensare che la società vada sempre peggio ogni giorno. In realtà, la risposta giusta è la terza, cioè ogni singolo giorno della nostra vita 250 mila persone escono dalle condizioni di povertà. E perché non lo sappiamo? Perché siamo tutti quanti automaticamente portati a considerare una notizia spesso una cattiva notizia, mentre le buone notizie tendono a essere considerate come delle non notizie. Questo sentimento di pessimismo universale ha creato un mondo in cui si considerano giuste soltanto le posizioni di coloro che dicono che tutto quanto va male. Vi cito un ultimo dato, che mi ha davvero molto colpito. Prima che ci fossero le elezioni, il Censis ha notato che tra il 70 e l’85 per cento degli italiani si trova a coltivare un sentimento di rancore, forte, violento, ma allo stesso tempo il 78 per cento degli italiani si dichiara molto soddisfatto o abbastanza soddisfatto della vita che conduce. C’è qualcosa che non torna se il 78 per cento degli italiani dice di stare bene e l’80 per cento dice di essere arrabbiatissimo, significa che qualcosa è andato storto, significa che noi automaticamente ma anche in maniera involontaria tendiamo a considerare vero soltanto ciò che corrisponde a un sentimento che alimenta la società dello sfascio. Arrivo a concludere spiegando l’altra grande dicotomia, quella tra ciò che è virale e ciò che è reale. Perché oggi ciò che noi leggiamo spesso in maniera disordinata sui social lo consideriamo anche come qualcosa che a prescindere da dove arriva, vale quanto una notizia letta su un grande giornale? Perché negli ultimi anni abbiamo tutti quanti volontariamente o involontariamente coltivato un’idea di mitizzazione della società della rete. In nome di un principio, che era quello che la democrazia non funziona più, abbiamo creato l’illusione che la democrazia del futuro fosse necessariamente quella sulla rete e di conseguenza tutto ciò che si manifesta sulla rete viene automaticamente considerato come qualcosa di più vero rispetto a quello che succede fuori dalla rete.

 


Protesta contro Facebook a Londra (foto LaPresse). Calabresi: “In Birmania, nella persecuzione dei Rohingya, l’impatto di Facebook è stato fondamentale” 


 

“C’è qualcosa che non torna se il 78 per cento degli italiani dice di stare bene e l’80 per cento dice di essere arrabbiatissimo”

E poi c’è un altro fenomeno: perché ciò che è virale oggi tende a contare quanto ciò che è reale? Perché ormai basta che ci sia un hashtag molto ripetuto, molto ritwittato, molto rilanciato per essere vero. E se qualcosa è falsa ma diventa vera sulla rete, diventa virale, noi ne parliamo come se fosse qualcosa di vero. E’ su questi meccanismi che alla fine agisce la capacità forte delle fake news di condizionare il nostro dibattito pubblico. Le fake news non nascono oggi, ci sono sempre state anche prima dei social. I social se vogliamo hanno portato un elemento in più: sono come un nuovo palinsesto, come una grande cassa di risonanza che dà la possibilità a tutti quanti di avere un numero di notizie superiore rispetto a quelle che avevamo prima. Ma se noi veniamo travolti da notizie negative, i social poi tendono a valorizzare sempre notizie negative quindi a fine giornata ci troviamo a pensare di vivere in un mondo terribile. Anche se poi le cose a volte vanno male, non vanno necessariamente sempre peggio. Ultimo elemento di riflessione: i social, e non parlo soltanto di Twitter, di Facebook, ma parlo anche di Spotify e di tutti gli altri grandi social che in qualche modo fanno parte delle nostre vite, hanno un elemento in più distorsivo, cioè tendono sempre ad alimentare la bolla in cui viviamo, tendono sempre a consigliarci di seguire le persone che somigliano a noi. Tendono sempre a suggerirci le canzoni che già ascoltiamo. Tendono sempre a suggerirci opinioni che già condividiamo, e quindi questa grande società della condivisione in cui vale soltanto ciò che tu condividi perché lo pensi, ti porta a ingrossare la tua bolla e a considerare chi la pensa in maniera diversa da te come qualcuno non che ha un pensiero alternativo, ma come un pazzo, come qualcuno che vive fuori dal mondo. Quindi è su questi elementi che secondo me agiscono tutte le caratteristiche e tutti i ragionamenti che abbiamo fatto.

  

Varetto. Si arriva così al tema della responsabilità di chi detiene queste piattaforme, perché queste echo chamber, queste camere dell’Eco dove mi arrivano solo notizie selezionate in base ai miei gusti, non fanno che avvalorare la mia tesi. Io non cambierò mai idea, non metto neanche in dubbio quello che è il mio pensiero, perché mi arrivano tutte informazione che vanno già in quella direzione.

 

“I social tendono sempre ad alimentare la bolla in cui viviamo, tendono sempre a suggerirci opinioni che già condividiamo”

Sappiamo bene che questo è determinato da una serie di algoritmi, quindi l’algoritmo, lungi dall’essere una semplice formula matematica, in realtà è costruito per far sì che mi arrivino informazioni con le quali sono già d’accordo. Viene fatta una scelta anche editoriale, e allora perché chi detiene queste piattaforme non ha alcuna responsabilità rispetto ai contenuti divulgati? Perché poi il nodo è questo: io non so se davvero l’Antitrust interverrà mai, non soltanto con una multa, perché sappiamo che le multe fanno il solletico a questi giganti, ma ordinando il famoso spezzatino e ricreando quindi un mercato che può avere una qualche parvenza democratica. Non dimentichiamoci che è verissimo quello che diceva Cerasa: ogni giorno 250 mila persone escono dalla povertà, il mondo non è mai stato così sano e così ricco come oggi. Ma per la prima volta negli ultimi quindici anni è meno democratico, cioè è diminuito il tasso di democrazia in giro per il mondo, e questo è un dato da tenere ben presente, accanto quello della ricchezza e della salute.

 

Molinari. Noi viviamo la stagione iniziale della comunicazione digitale. Essendo la stagione iniziale, è una stagione destinata a essere corretta, arricchita o modificata. Facciamo un esempio concreto: l’intelligenza artificiale. Che cos’è l’intelligenza artificiale? La semplificazione estrema è che assomiglia o può assomigliare a quella che è stata la corrente nella rivoluzione industriale. L a rivoluzione industriale era fatta di macchine che avevano bisogno di essere messe in collegamento fra loro e di avere i loro utenti. Lo strumento fu la corrente: senza la corrente non vi sarebbe stata rivoluzione industriale, sarebbero state solamente macchine. Come si profila l’intelligenza artificiale? Come il metodo con cui interagiranno i robot fra di loro, e questo ha a che vedere anche naturalmente con quello che avviene sul web nello scambio dei dati. Allora se questo è il percorso – entrate in qualsiasi think tank di Tokyo e vi parleranno di questo argomento che stiamo discutendo adesso, cioè l’intelligenza artificiale come nuova corrente – chiaramente ci rendiamo conto che siamo ai prodromi, siamo alle prime pagine, non è neanche iniziata la rivoluzione digitale. L’interrogativo è: se i robot parleranno fra di loro e se quindi i vari gestori di piattaforme parleranno fra di loro attraverso sistemi che sfuggono al controllo, quale sarà il ruolo degli esseri umani? Dovremmo rivoltarci contro i robot? Dovremmo tentare di convivere con i robot? Dovremmo cercare di dare delle regole all’intelligenza artificiale?

 

Molinari: “Il punto è come declinare i nostri valori di fronte alle nuove sfide. In America i singoli stanno trovando delle soluzioni”

Io sinceramente non ho queste risposte, sono però consapevole che questa è la fase storica nella quale noi siamo. In ogni stagione nella quale i cambiamenti sono di portata talmente epocale, cosa possono fare gli esseri umani, restare fermi, ancorati attorno ai loro valori – rispetto del prossimo, stato di diritto, uguaglianza? Il punto è come declinarli di fronte alle nuove sfide. Io che ho iniziato a lavorare alla Voce repubblicana di Giovanni Spadolini credo nel mercato, credo profondamente nel mercato e credo profondamente negli esseri umani, nella responsabilità degli esseri umani. Cioè credo che fra il bene e il male l’essere umano opta sempre, se ha la possibilità di farlo, per il bene. Oggi nel mercato degli Stati Uniti, che è quello più avanzato, i singoli stanno trovando delle soluzioni. Sono soluzioni individuali, estemporanee, di mercato, ma che vale la pena di conoscere e considerare. Riguardo al problema del volume eccessivo di informazione corrotta per le nuove generazioni, come si stanno proteggendo i genitori a San Francisco o in Kentucky? Stanno acquistando delle device che costano 99 dollari che consentono di filtrare, di vedere quello che fanno i loro figli. E’ una forma di censura? Sì. E’ una forma di censura sui tuoi figli? Sì. E’ qualcosa che una cultura liberale potrebbe definire una costrizione? Sì. Però, siccome siamo nella fase iniziale di una nuova stagione, allora perlomeno io che sono nella stanza vicina dove vivono i miei figli so che cosa stanno consultando su internet. E’ una fase rudimentale della digitalizzazione, però dà l’idea che iniziano a esserci degli strumenti. Non vi dico i nomi se no faccio pubblicità, però sono molto efficaci, sono spettacolari. Un altro elemento è, diciamolo senza nessuna remora, il ritorno dell’informazione di qualità. Gli Stati Uniti sono sempre tre-quattro anni avanti all’Europa occidentale: negli Stati Uniti sta tornando l’informazione di carta, sta tornando l’informazione di qualità. Il motivo per cui Jeff Bezos ha investito sul Washington Post, il motivo per cui la redazione del New York Times a Washington è passata da 65 a cento redattori è che l’informazione di qualità sta tornando a funzionare, perché la reazione alle fake news è questa. I singoli votano con le loro singole decisioni: fra la fake news e l’informazione di qualità, se hanno la possibilità di scegliere, scelgono l’informazione di qualità. Quindi noi dobbiamo scommettere sui singoli, noi dobbiamo scommettere sulla responsabilità personale dei singoli, sulla capacità dei singoli di scegliere fra le fake news e l’informazione di qualità. Questo è il nostro ruolo, questa è la nostra sfida. Sarà difficilissimo, però proprio perché siamo in una stagione di passaggio le scommesse impossibili si possono davvero vincere.

 

Calabresi. Volevo dire però una cosa. Io credo che le soluzioni singole, dal basso, possano portare a fioriture anche belle, però abbiamo visto Zuckerberg al Congresso degli Stati Uniti: sembrava uno scontro tra uno che aveva perfettamente sotto controllo i termini del suo prodotto e i politici americani, i legislatori che facevano domande che in certi momenti erano naïf, cioè non sapevano bene di che cosa si parlasse…

 

Varetto. Un senatore ha chiesto: ma se è gratis, come fate a fare tanti soldi? E lui ha detto: ci mettiamo un po’ di pubblicità.…

  

Calabresi. La cosa che fa impressione è come la sfida tra il legislatore e questi grandi gruppi mondiali, Facebook, Amazon, Google soprattutto, Apple, sia una sfida impari. Però io credo che, come dicevano sia Contu che Cerasa, noi dobbiamo preoccuparci e immaginare che ci siano anche legislazioni che non possono essere legislazioni nazionali: devono essere a livello europeo, a livello di G7, il Congresso degli Stati Uniti se le lobby della Silicon Valley gli permettono di fare qualche cosa, perché mentre noi adesso stiamo pensando di fare una discussione molto di avanguardia, in realtà stiamo facendo una discussione già vecchissima, di retroguardia. L’altro ieri è finita in California una conferenza di Facebook che si fa tutti gli anni. Il tema era l’intelligenza artificiale, come gli algoritmi possono raccogliere informazioni per le persone, ma di politica non se n’è neanche parlato… Vi faccio un esempio: le compagnie assicuratrici. Oggi una compagnia assicuratrice o una banca quando dà un mutuo si prende un sacco di rischi e cerca quindi di capire chi è la persona che si presenta allo sportello. Ormai l’intelligenza artificiale ha dei sistemi, degli algoritmi che si nutrono tutti i giorni di dati e imparano da soli e preparano dei profili che venderanno come banche dati alle assicurazioni sanitarie, alle assicurazioni della macchina, a chi fa i mutui, e questi in quattro secondi ti diranno se puoi avere un mutuo o no, che assicurazione potrai fare a seconda della tua percentuale di rischio, dei tuoi comportamenti. Immaginiamo che tu su Facebook metta sempre delle foto in cui vai a letto alle tre di mattina e vai a feste dove bevi e spendi un sacco di soldi… il tuo comportamento entrerà in automatico in un profilo che farà dire a un’assicurazione sanitaria: questo è meglio che non lo prenda perché è uno che ne combina troppe… Di fronte a questo tipo di cose, devono preoccuparsi la politica e le istituzioni di mettere delle regole, o no? Io penso che il Congresso degli Stati Uniti o la Commissione europea debbano mettere delle regole a protezione – la vogliamo mettere sul piano del mercato, non dell’antimercato? – a protezione del consumatore, a protezione di una sana dialettica, di un sano mondo in cui io consumatore non divento solo prodotto ma posso essere ancora protagonista.

  

Varetto. E infatti questo è secondo me il cuore del tema. E’ bellissima la suggestione di Molinari, e dopo mi faccio dare il nome di quel software perché mi sembra molto utile per chiunque abbia figli minorenni, però tornando al tema generale delle regole, perché è vero che le regole servono e devono essere per forza transnazionali, che tipo di meccanismo si deve innescare perché davvero ci sia un processo di questo genere?

 

Varetto: “Dimensioni delle aziende, quindi concorrenza, fisco, contenuti: non siamo ancora riusciti a mettere delle regole”

Aggiungo che ci sono cose che sono già sfuggite di mano, come le dimensioni. Dicevamo prima: 3.500 miliardi di dollari di capitalizzazione per cinque aziende, e dieci anni fa di queste cinque aziende nei primi cinque posti per capitalizzazione ce n’era solo una, Microsoft, le altre quattro sono arrivate dopo, quindi la crescita è stata velocissima, senza alcuna regola. Oggi poi vediamo che si sono poste regole nemmeno sul piano della fiscalità: non siamo riusciti a fargli pagare le tasse. Per restare al livello europeo, sappiamo che la web tax avrà un destino decisamente complicato per l’opposizione di quei paesi che fanno dumping fiscale all’interno dell’Unione. E ancora: non siamo riusciti a mettere regole sulle fake news. 

  

Dai genitori, dagli stati (anche oltre i singoli territori) le regole per l’universo digitale. Perché l’anarchia non è l’evoluzione naturale della democrazia

 

Poi adesso Calabresi citava i dati raccolti per le compagnie di assicurazione, ma attenzione, c’è già una raccolta dati sul merito di credito, perché in realtà molte di queste piattaforme i dati non li vanno poi a rivendere, stanno già facendo attività bancaria, con Apple pay per esempio e tanti altri servizi. Ma anche in questo caso è d’obbligo chiedersi: sottostanno alle regole dell’attività bancaria? No. Allora, che cosa deve accadere ancora perché si arrivi a elaborare perlomeno un manifesto di messa insieme di regole?

 

Fontana. Io vorrei dire che non ho tanta fiducia che in tempi rapidi si possa arrivare a una regolamentazione globale condivisa. Cerchiamo di capire intanto che cosa sta accadendo, perché nel primo giro abbiamo parlato di Obama e abbiamo parlato di Trump, e abbiamo detto: perché quando Obama usava il microtargeting per fare campagna elettorale ci sembrava moderno, innovativo e democratico, e quando lo fa Trump è brutto, sporco e cattivo? Ci sarà qualche motivo, magari legato al fatto che Obama ci piaceva un po’ di più, ma la realtà è che in questi pochi anni sono successe cose clamorose. C’è stato un cambiamento, della tecnologia e della capacità del software di intercettare elementi, decisamente straordinario. Prima abbiamo ragionato su gruppi di persone, su profili sociali, profili politici, poi sulle persone concrete, di cui non solo sappiamo tutto ma possiamo anche prevedere i comportamenti.

 

Fontana: “Con l’internet delle cose, chi avrà il potere di mettere insieme tutti i nostri dati personali dominerà le nostre vite”

E’ stato detto e scritto che Facebook con settanta nostri like sa più di quanto ne sanno di noi i nostri amici, con 150 più di quanto ne sanno nostro padre e nostra madre, con 300 più di quanto ne sa la nostra compagna o la nostra moglie. E se superiamo la soglia dei 300 like, ne sa più di noi stessi. Se sta finendo una storia d’amore, Facebook sicuramente lo sa prima di me. Questa è la situazione in cui ci troviamo, quindi questa accelerazione continua comporta intanto che le regole nel momento in cui le discutiamo già cominciano a essere superate. La questione verrà enormemente complicata dal fatto che non ci saranno solo Facebook, Google, Twitter, Instagram ecc. ma ci sarà un punto in cui con l’internet delle cose, avremo nelle scarpe i sensori che ci diranno che tipo di scarpe sono più adatte al terreno che stiamo calpestando, saremo circondati da un mondo che saprà in ogni istante tutto di noi e chi avrà il potere di mettere insieme tutti questi dati dominerà le nostre vite. Come ci si difende? Intanto io penso che in parte c’è una questione di recupero della responsabilità individuale, perché c’è qualcosa che forse c’è sfuggita come genitori, come giornalisti, come educatori, come professori. Abbiamo un po’ tutti seguito l’onda, ci piaceva perché stare su Facebook, stare connessi, stare in rete era tutto molto bello, interessante, moderno, fico, non capendone i rischi e abbandonando spesso i nostri figli a una deriva pericolosa. Immaginate un semplice gesto: nel momento in cui noi abbiamo una nuova app, possiamo avere due percorsi, o ci registriamo con un nuovo profilo, con una nuova password, oppure facciamo quella cosa che ci pare bellissima perché ci fa risparmiare tempo: accedi tramite Facebook. Se accedete tramite Facebook, avete consegnato a questa nuova piattaforma tutti i dati che Facebook conosce, e per fortuna adesso hanno cambiato la regolamentazione: prima anche i dati degli amici. Così è nata Cambridge Analytica. Quindi ci sono alcuni gesti consapevoli, di cui individualmente dobbiamo avere la responsabilità, che sarebbe molto utile recuperare. Il secondo punto è cominciare a fare una battaglia legale, politica e sociale nei confronti degli “over the top” che detengono i nostri dati. Intanto c’è la questione dell’anonimato: perché sulla rete io devo essere sottoposto al bombardamento di persone che sono false perché sono troll, o di cui non so nulla? L’obbligo di non essere anonimi sarebbe già un grande miglioramento. Una regolazione antitrust e una regolazione fiscale sono temi che possono affrontare fondamentalmente i grandi stati e le superpotenze. Mi pare però che il clima che si sta politicamente affermando – torniamo ai territori, torniamo alle chiusure – sia il clima peggiore in cui si possa fare qualcosa, perché ci sarà sempre un territorio che per questioni politiche ed economiche cercherà di dettare condizioni più vantaggiose. Quindi la battaglia contro la globalizzazione per l’isolazionismo secondo me è una prospettiva mortale per quello che riguarda la possibilità di fare qualcosa e di difendere le nostre vite da un’invasione che a un certo punto ci sembrerà insopportabile e metterà a rischio la stessa democrazia.

 

Varetto. Il rischio che sta correndo la democrazia occidentale: questo è un elemento cardine che è venuto fuori in più di un intervento oggi. Però l’abbiamo “spacchettato” in livelli diversi: abbiamo parlato del sistema delle regole, abbiamo parlato del comportamento individuale.

 

I rischi di accedere a un’app tramite Facebook. La questione dell’anonimato. La battaglia mortale contro la globalizzazione

Luigi Contu, vorrei riallacciarmi a un tema introdotto da Cerasa, e cioè il valore della privacy. Secondo te, per le nuove generazioni sarà ancora possibile ricreare questo senso della privacy, o peserà di più la quantità di servizi che l’altra mano offre gratuitamente? O ancora, è la nostra società che si è evoluta in questo modo, e non ci importa più della privacy, anzi condividere è diventato quasi più importante che vivere?

 

 

Contu. Io credo che ci sia ancora lo spazio e non mi arrenderei, perché è vero che nessuno di noi nutre molta fiducia nella politica, ma non è ammissibile che un qualsiasi esercizio commerciale subisca dieci controlli al mese e questi giganti non debbano mai averne. Quanto alla privacy, io sono un uno di quelli che in parte l’ha ceduta: sono molto contento di Apple Music per esempio, al contrario di Cerasa, perché mi propone tutti i pezzi che a me piacciono. Allo stesso tempo sono convinto che occorra un limite che noi dobbiamo insegnare, dobbiamo far capire a cominciare dai ragazzi, dalle scuole. L’abbiamo detto tante volte, però a me piace ripeterlo: ma come è possibile che in una famiglia se c’è un problema di una persona che sta male ci si interroga, si chiamano gli amici, si cerca di sapere qual è l’ospedale che garantisce di più, qual è il medico migliore, e invece se mi devo informare su quello che ha detto Salvini, chiunque me lo dice va bene. Qual è la logica? Perché noi pensiamo che dentro una scatoletta o “leggendo” Facebook, come dice mio figlio, possiamo informarci correttamente? Perché non cerchiamo di capire che è meglio leggere la Stampa, la Repubblica, il Foglio, il Corriere o andare sul sito dell’Ansa invece che raccogliere a caso quello che si trova in rete? Un po’ le cose ci sono scappate di mano, però nel corso della storia, come ci ha detto Sarah Varetto, alcune sono state recuperate. E’ il legislatore che deve agire a livello globale, ma noi non dobbiamo perdere la forza di spingerlo in questa direzione, parlarne, soprattutto con i giovani, perché veramente questo è un cortocircuito che ci può portare in zone pericolosissime. Lo dicevo all’inizio e non era un paradosso: secondo me i nostri valori, i valori della democrazia e della convivenza civile sono a rischio.

  

Varetto. Claudio Cerasa, mi colpisce una cosa che abbiamo detto un po’ tutti: invochiamo la necessità di regole globali, sulle quali, per quanto le auspichi, sono molto scettica, perché ricordo bene che all’indomani della grande crisi del 2008 si diceva: facciamo delle normative, blocchiamo la finanza cattiva, e non è cambiato assolutamente nulla. Però, provando a essere ottimisti, possiamo anche sgombrare il campo da un equivoco? Tutti noi nell’invocare regole premettiamo: però siamo per il mercato. Perché, mettere delle regole significa in qualche maniera intaccare il libero mercato? No. Attenzione: libero mercato, concorrenza, significa che tutti combattono ad armi pari, perché il piccolo negozio non soltanto subisce controlli, ma paga le tasse fino all’ultimo centesimo, mentre questi signori non pagano neppure le tasse, o meglio, le pagano come se un lavoratore medio versasse un euro all’anno: questa è più o meno l’entità del tributo fiscale che versano. Ecco, diciamo allora che in questo caso mettere regole significa onorare il libero mercato e la concorrenza.

 

Cerasa. Sì, è così, e per spiegarlo potremmo tracciare un filo rosso che parte dal mercato, arriva allo Stato, passa per la democrazia e arriva fino a quello che è uno dei veri drammi dell’occidente: le chat dei genitori su WhatsApp. Cerco di spiegarlo in maniera semplice: la ragione per cui oggi la dicotomia vera è tra gerarchia e anarchia è perché l’onda antisistema ha attaccato il principio della gerarchia e ha attaccato l’idea che ci sia un sistema legittimato a mettere delle regole.

 

“Il principio di responsabilità è il vero punto chiave, che riguarda ovviamente l’individuo ma anche la famiglia, la politica, i mercati”

Se per molti anni si è avuta una grossa difficoltà anche soltanto a pensare di ragionare sulle responsabilità di Facebook, sulle responsabilità della rete, è per la ragione che dicevamo prima: perché la rete è il luogo in cui matura una nuova, pura, saggia e genuina democrazia e ogni regola che riguarda tutto ciò che si manifesta sulla rete equivale a un bavaglio contro la nuova democrazia e quindi in nome di questo principio si è affermata l’idea che l’anarchia sia l’alternativa alla gerarchia. E che c’entrano le incredibili chat dei genitori su WhatsApp?

 

Varetto. Si mette in dubbio l’autorità degli insegnanti nella scuola.

 

Cerasa. Peggio ancora. Succede che ormai quotidianamente i genitori si riuniscono su queste chat su WhatsApp e processano gli insegnanti. In quel momento le chat illuminate, diciamo, discutono, le chat meno illuminate tendono a coltivare la cultura del sospetto verso l’insegnante, tendono a coltivare l’idea che uno vale uno, cioè che io genitore valgo come un insegnante… e chi è l’insegnante per decidere ciò che deve imparare mio figlio? Vale anche l’idea che in fondo gli esperti contino quanto i non esperti. Quindi quello è il vero incubatore di tutti quanti i tic che esistono oggi nella nostra società. Questo c’entra con il mercato, con lo Stato, ma anche con il rapporto che i genitori hanno con i figli, perché si è affermato un principio un po’ pazzotico, e cioè che il mercato va bene soltanto se non ha regole, quindi deve muoversi da solo, i cittadini sono liberi soltanto se possono fare tutto quello che vogliono, i figli devono essere messi nella condizione di fare tutto quello che vogliono, e quindi anche l’idea di poter mettere un controllo, come diceva prima Molinari, è qualcosa che fino a qualche tempo fa veniva considerata come una follia. Oggi invece è quello che nel mondo della politica può chiamarsi liberismo pragmatico, che è questa corrente di pensiero interessante che cerca di mediare tra chi considera lo Stato come un istituto che deve dare sempre delle regole, deve condizionare tutto, e chi considera il mercato come qualcosa di intoccabile, per arrivare a pensare al mercato come qualcosa che deve essere lasciato crescere, come un figlio, ma al quale, come a un figlio, deve essere data qualche regola. Questo è un po’ il filo conduttore, e se ci pensiamo è anche il filo conduttore della nostra democrazia. Oggi qui dovevamo parlare anche un po’ di Russia, un po’ di Putin: ecco, probabilmente la ragione vera per cui la Russia in questo momento riesce a fare leva sulle contraddizioni dell’occidente, è che purtroppo in alcuni posti in cui vi è una democrazia farlocca, una democrazia più simile a un dispotismo, le cose apparentemente funzionano meglio, cioè i processi decisionali sono più efficaci e si ha l’illusione che quei processi possano avere uno loro sensatezza, mentre la democrazia è in qualche modo vittima dei suoi successi. Prima parlavamo dell’ottimismo come alternativa al pessimismo, però c’è anche un altro ottimismo interessante da mettere a fuoco, ed è quello declinato dal premio Nobel dell’Economia Richard Thaler, che ha dato una definizione meravigliosa del cattivo pessimismo. Due righe che vi leggo: “Il cattivo pessimismo è quando le persone sovrastimano la propria immunità personale dal male e potrebbero in quel caso non riuscire a muoversi nella giusta direzione per continuare a prevenire quel male”. Questo lo vediamo ogni giorno, quando i ragazzi magari iniziano a pensare alle alternative alla democrazia perché non le hanno conosciute, non le hanno vissute. Questo vale anche sui vaccini: oggi siamo nelle condizioni di poter considerare la discussione sui vaccini come qualcosa di legittimo e di sensato perché i vaccini hanno avuto successo, e quindi non ci rendiamo conto di quello che significherebbe avere una società in cui alcuni vaccini non ci fossero più. Per concludere, il principio di responsabilità è il vero punto che riguarda ovviamente il singolo individuo, ma riguarda anche la politica, i mercati, i genitori. Tutti quanti dovrebbero avere il coraggio di dire, di fronte a un piccolo processo di anarchia: no, non va bene. So che dico una cosa controcorrente io genitore che metto le regole, io Stato che metto le regole, però l’anarchia non è l’evoluzione naturale della democrazia. Questo dovrebbe essere un principio da cui partire.