Mario Draghi (foto LaPresse)

Miti un po' scaduti sui sovrani della moneta

Alberto Brambilla

Scarsa empatia, onnipotenza e distacco dalla politica non si portano più

Nella tribù dei banchieri centrali si racconta una barzelletta sui banchieri centrali che piace ricordare anche al presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. E fa più o meno così. Un uomo aveva bisogno di un trapianto di cuore. Il dottore lo mise davanti a diverse scelte, inclusa la scelta del cuore di un banchiere centrale di 75 anni. “Prenderò quello”, rispose immediatamente l’uomo. “Perché?”, chiese il dottore. “Bene – disse l’uomo – perché non è mai stato usato”. Questa visione dei banchieri centrali freddi e calcolatori può servire a convincere dell’idea che alla Federal Reserve o alla Bce siedono uomini e donne che fanno parte di un circolo di economisti, banchieri, avvocati o politici (dipende da che settore provengono i banchieri centrali) senza anima: le Banche centrali prendono decisioni razionali in circostanze estreme con grande precisione e senza alcuna emozione. Ebbene non sembra essere più così.

 

Non è oramai difficile in epoca post-crisi – prima della prossima crisi (che prima o poi arriva) – e in èra di partiti nazional-populisti sentire banchieri centrali empatici verso il popolo, verso gli ultimi, verso quelli rimasti indietro con la globalizzazione. A proposito il banchiere francese Benoit Couré, membro del consiglio direttivo della Bce, intervistato dal Corriere della Sera, ha prodotto una parziale abiura della globalizzazione. “La ragione per la quale ci sono problemi oggi è che la globalizzazione non ha mantenuto le promesse – dice Couré – Oggi siamo in una transizione molto disordinata e ci sono tentazioni di tornare a ideali nazionalisti, mentre uno dei grandi successi raggiunti dopo la seconda guerra mondiale è stata la creazione di un ordine internazionale basato sulla fiducia. Un cambiamento è necessario: per esempio siamo stati naif nell’aprire i flussi finanziari internazionali. C’è stata troppa globalizzazione finanziaria – dice il banchiere – e questo ha portato volatilità e rischi sistemici e ha eroso la base fiscale perché le multinazionali hanno perso l’appartenenza nazionale. In un certo senso, l’apertura finanziaria ha eliminato i benefici dell’apertura commerciale. Dobbiamo raggiungere un nuovo ordine internazionale che superi questi problemi. Ma tornare a un sistema di sole priorità nazionali chiaramente non funziona”. Couré insomma dimostra di avere un cuore, benché non indichi una alternativa in merito all’ascesa dei partiti nazionalisti sostenuti – in parte – da un elettorato che si sente, a torto o a ragione, escluso dalla globalizzazione. C’è un mea culpa da parte del membro della Bce attraverso la negazione del fatto che il processo di globalizzazione – tutt’altro che esclusivo ma anzi inclusivo – ha prodotto, a partire dall’Ottocento, una capacità di produzione di ricchezza, di beni, di servizi e un miglioramento degli standard di vita senza pari nella storia dell’umanità, per cui anche i paesi più poveri hanno ridotto la percentuale di popolazione denutrita.

 

Il mestiere del banchiere centrale, lungi dall’essere un uomo-macchina, è però difficile al punto che in passato è stato paragonato da Richard Fisher della Federal reserve di Dallas a quello di un pattinatore su un lago ghiacciato avvolto nella nebbia. Spesso i banchieri centrali vengono caricati dall’opinione pubblica di una capacità taumaturgica che in realtà non possiedono. Ancora Couré: “Se dai troppi obiettivi a una Banca centrale la trasformi da un’entità apolitica con un preciso mandato in un’istituzione politica. Abbiamo il dovere di portare a termine il nostro mandato, che è la stabilità dei prezzi. Ma darci troppi obiettivi ci renderebbe politici, che certamente non è quel che vogliamo essere”. Ergo, i banchieri centrali non sono infallibili, nonostante siano all’apice della “catena alimentare” del sistema finanziario-bancario mondiale non possono avere sempre successo (da soli). Non sono onnipotenti. Ebbene possono però fallire, parzialmente, anche restando all’interno della estensione massima del loro mandato usando strumenti non convenzionali (senza quindi trasformarsi in politici, ma restando appieno nel loro ruolo). Non sono, poi, nemmeno veggenti. Per esempio la cosiddetta “forward guidance”, indicazioni sulla politica monetaria futura, è stata a lungo usata per fornire una bussola ai mercati finanziari. Con il risultato che le indicazioni non sono state in realtà così affidabili dal momento che le condizioni cangianti dell’economia costringono a rivedere i piani in corsa. La Bce, per esempio, subito dopo avere esaurito il Quantitative easing, giovedì scorso ha annunciato un nuovo round di prestiti alle banche dell’Eurozona. Era prevedibile dagli investitori, ma non era scontato. La decisione unanime della Bce è arrivata dopo avere corretto al ribasso le previsioni di crescita dell’area euro, previsioni che fino a due mesi prima non erano così preoccupanti. Meglio intervenire prima che dopo, certo. Ma l’infallibilità nelle previsioni e nelle azioni attribuita ai banchieri centrali è da considerare un mito popolare superato. Si vedrà forse con maggiore evidenza nel 2020 se la Bce sarà forzata dagli eventi a intraprendere un nuovo programma di acquisto di titoli pubblici (eventualità che oggi viene respinta in quanto considerata estrema).

 

I banchieri centrali difendono, poi, la loro indipendenza dalla politica. Jerome Powell, capo della Federal Reserve, dice a Donald Trump che resterà fino a fine mandato e il presidente non può cacciarlo. Powell è stato nominato da Trump che poi lo ha attaccato perché la Fed stava procedendo a un percorso rapido di rialzo dei tassi che poteva fermare la promessa di “fare tornare grande l’America”. La prospettiva di peggioramento delle condizioni economiche ha poi convinto la Fed a moderare la stretta dei tassi e, in conclusione, a fare proprio quello che sperava Trump. Entrambi, Fed e Casa Bianca, hanno l’obiettivo di mantenere condizioni di crescita e occupazione accettabili ed è difficile per Powell affermare che il sentimento politico – una preoccupazione per la tenuta dell’economia – non abbia influenzato le decisioni della Fed. Anche la Bce è stata influenzata dalla politica: senza l’opposizione tedesca il Quantitative easing poteva essere inaugurato con anticipo, prima del 2015. Non di meno la Bank of Japan condivide con il governo di Shinzo Abe la necessità di combattere la deflazione, come fossero un sol uomo. Banche centrali e governi, in condizioni estreme, lavorano con lo stesso scopo e sull’onda delle stesse emozioni. Un mito è che siano in costante opposizione.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.