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Non possiamo permetterci il sovranismo agrario

Alberto Brambilla

Fondi europei e accordi internazionali sono l'unica difesa degli agricoltori, dice Angelo Frascarelli, professore dell’Università di Perugia

Cosa significa difendere la “nostra terra con le unghie” come vorrebbe il vicepremier leghista Matteo Salvini? Di certo non significa staccarsi dall’Unione europea e rinunciare ai fondi comunitari né tanto meno stracciare accordi internazionali che permettono di trovare nuovi mercati di sbocco o di consolidare quelli tradizionali.

 

Il sovranismo agricolo sarebbe la morte dell’agricoltura italiana, avremmo qualche vantaggio a produrre materie prime (mais, grano, soia, patate), ma non è la nostra vocazione perché produciamo prodotti (dalla pasta all’olio d’oliva) ad alto valore aggiunto perché trasformati in Italia”, dice Angelo Frascarelli, professore dell’Università di Perugia presso il dipartimento di Scienze agrarie. Il motivo è semplice. L’agricoltura riceve sostegno pubblico in tutte le economie sviluppate, dagli Stati Uniti alla Norvegia passando, ovviamente, per la comunità europea e ha bisogno di aiuto per esistere.

 

“In tutti i paesi sviluppati l’agricoltura è un settore debole – dice Frascarelli – perché declinante e oggi in Italia conta il 2 per cento del valore aggiunto dell’economia”, negli Stati Uniti è ancora meno. In Europa i contributi europei al settore sono ridotti negli ultimi anni comportando una compressione del reddito degli agricoltori. “L’Italia – spiega Frascarelli – riceve di contributi europei per l’agricoltura e lo sviluppo rurale per 7,4 miliardi all’anno che può sembrare una somma importante ma in realtà il sostegno pubblico incide per il 28 per cento sui redditi degli agricoltori – ergo, se non ci fosse il sostegno i redditi degli imprenditori agricoli si ridurrebbero di pari percentuale – mentre in Francia si arriva al 40, in Germania al 42, in Slovacchia al 90 per cento. L’importanza del sostegno pubblico è insomma rilevante in tutti i paesi europei”, dice il professore.

 

Per questo motivo immaginare di potere dispiegare una politica agricola nazionale al di fuori dell’Unione europea avrebbe dei risvolti critici non soltanto per gli agricoltori, che vedrebbero ridotto i contributi, ma anche per la salvaguardia del territorio al quale gli imprenditori agricoli contribuiscono.

 

“L’Italia è un paese che utilizza i fondi comunitari con difficoltà in tutti i settori, anche per l’agricoltura abbiamo burocrazia farraginosa e lentezza nella spesa che sono tipiche del nostro paese – dice Frascarelli – E’ però interessante notare che se non ci fosse una politica agricola di sostegno all’agricoltura avremmo tante politiche nazionali e difficilmente potremmo permettercelo. Per esempio con la Brexit il Regno Unito dovrà sostenere una politica agricola autonoma”.

 

Se non ci fossero aiuti verrebbe a mancare ma anche la funzione pubblica degli aiuti comunitari stessi che riguarda la tutela del territorio.

 

“I paesi sviluppati potrebbero fare a meno dell’agricoltura ma la sostengono perché produce beni pubblici. Infatti la politica agricola interviene per tutelare l’ ambiente, la sicurezza alimentare, lo sviluppo rurale. Un agricoltore italiano riceve in media un contributo di 350 euro per ettaro per questo motivo. L’agricoltore si impegna a coltivare secondo rigide norme ambientali, sia per il benessere animale sia di sicurezza degli alimenti, quindi l’Unione europea e lo stato membro li sostengono per avere in cambio qualità ambientale e dei prodotti venduti. Poi – aggiunge Frascarelli – ci sono politiche di sviluppo rurale, per l’agricoltura biologica, quella integrata, gli investimenti in innovazione e l’insediamento di giovani agricoltori”.

Questi due ultimi problemi sono particolarmente evidenti in Italia dove gli agricoltori sono più anziani rispetto agli altri paesi e la tecnologia è sottoutilizzata rispetto alle altre agricolture europee.

 

Secondo Frascarelli, l’approccio degli agricoltori verso la ricezione dei fondi comunitari sta cambiando: se prima era votato alla ricerca dei finanziamenti purchessia adesso c’è maggiore attenzione allo sviluppo delle imprese. “In alcune situazioni i fondi comunitari non hanno aiutato a portare innovazione in certe zone d’Italia, per esempio l’olivicoltura del Salento, il grano duro in Sicilia. Una volta c’era la caccia ai contributi, oggi invece il fenomeno è limitato e le aziende più importanti che stanno su un mercato globalizzato puntano sull’innovazione anche perché sono vincolate a un alto livello di sostenibilità ambientale proprio per ricevere finanziamenti”.

 

C’è però un altro fattore che distanzia la politica italiana del governo gialloverde da uno sviluppo agricolo in un’economia globalizzata, ovvero il rifiuto propagandistico degli accordi internazionali come il Ttip con gli Stati Uniti, ormai naufragato, e poi il Ceta con il Canada. Come ci troveremmo fuori da accordi tra aree economiche? “Non potremmo resistere. L’Italia è un paese vocato a esportare prodotti ad alto valore aggiunto e le sue eccellenze hanno bisogno di mercati aperti per avere sbocchi. Per intenderci – spiega Frascarelli – l’Italia non può seguire il modello dell’agricoltura argentina, americana, ucraina o australiana che è basato su grandi quantità di prodotto a prezzi bassi, sarebbe fallimentare. L’Italia è un paese dove c’è poca terra, anche per condizioni orografiche difficili, in cui le aziende sono mediamente più piccole, e quindi deve vendere la propria merce in più mercati di sbocco possibile. La nostra ‘catena alimentare’ ha bisogno di esportare, quindi ben vengano tutti gli accordi purché evitino l’importazione di materie prime di bassa qualità. Non può guardare gli Stati Uniti come modello agricolo con esportazioni di grandi quantità di materie prime indifferenziate. Il protezionismo è una via fallimentare. E’ molto di moda in Italia, alimentata dalla tesi del sovranismo e dalle lagne di imprenditori agricoli che si lamentano dei prodotti stranieri di scarsa qualità e danno la colpa all’ignoranza dei consumatori. Ma l’agricoltura italiana è vocata all’esportazione ed è l’unica strada: l’agroalimentare italiano deve orientarsi alla distintività, alla qualità e alle filiere tracciate e organizzate”. conclude Frascarelli. Un’agricoltura italiana fuori dal mondo insomma non sarebbe possibile e di certo non sarebbe vantaggiosa per gli agricoltori che si vorrebbe difendere “con le unghie”.

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