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Macché transizione. L'Italia è nel limbo energetico

Alberto Brambilla

Con o senza l'auto elettrica, la filiera sembra impreparata a reggere la trasformazione del settore

"Questo è il più grande spettacolo che possiate avere occasione di vedere!”. Così nel vecchio west gli imbonitori attiravano folle di creduloni per vendere loro elisir contro ogni malanno promettendo miracoli. E poco importava se le sostanze contenute fossero corroboranti per qualche ora o anche dannose per la salute nel lungo termine. Un dilemma simile a quello che comincia a emergere riguardo alla produzione di auto elettriche. Tesla ha annunciato che taglierà oltre 3 mila dipendenti dalla sua forza lavoro in quanto il suo fondatore Elon Musk ha dichiarato che le auto che produce sono “troppo costose per la maggior parte delle persone”.

 

Il problema sta emergendo in questo periodo perché le maggiori case automobilistiche stanno rendendo noti i loro piani per la transizione all’elettrico, come General Motors e Volkswagen, e insieme prospettano tagli al personale. Il motivo è semplice e noto: il processo di fabbricazione di un’automobile convenzionale differisce significativamente da quello di un veicolo elettrico che richiede molte meno parti. Secondo una stima, un’automobile con motore a combustione richiede 1.400 componenti rispetto alle 200 componenti di una vettura elettrica. L’istituto tedesco Institut für Wirtschaftsforschung (Ifo) nel 2017 stimava che in Germania 600 mila posti di lavoro subiranno un impatto diretto o indiretto (nell’industria auto o nella filiera) per la transizione verso i veicoli elettrici. Questo perché i fornitori tradizionali dovranno passare dall’approvigionamento di parti come riduttori, tubi di scarico o iniettori a materiali per batterie, motori elettrici, sistemi frenanti capaci di restituire energia. Saranno altre mansioni a emergere, per esempio con una maggiore richiesta di ingegneri e un aumento delle richieste nel settore minerario. Il fatto che la produzione di vetture elettriche ridurrà l’occupazione attuale nel settore automobilistico è una buona ragione per non produrle affatto in Europa e importarle e basta? Uno studio indicativo dell’associazione Transport & Enviroment nel 2017 stimava che rinunciare del tutto alla transizione all’elettrico, in un orizzonte al 2030, comporterebbe una riduzione dei posti di lavoro del 35 per cento perché produttori cinesi e americani aggredirebbero la quota di mercato dei produttori tradizionali. L’unica opportunità per evitarlo è rispondere alla esuberanza soprattutto cinese: se i produttori sviluppano seriamente la loro produzione di veicoli elettrici – dice il rapporto – e forniscono il 90 per cento dei veicoli in Europa, i posti di lavoro nel settore automobilistico entro il 2030 diminuiranno solo del 6 per cento rispetto ai livelli di questi anni. Nel periodo di transizione dovranno emergere lavoratori qualificati e addestrati a soddisfare le esigenze del settore come ad esempio con l’installazione di impianti per il rifornimento di auto elettriche.

 

In Italia avanza lo stesso dilemma per l’industria. Secondo l’Associazione nazionale filiera industria automobilistica (Anfia), “il 2019 non lascia sperare per ora in alcun miglioramento per il settore” dopo un crollo delle immatricolazioni del 7,5 per cento nel mese di gennaio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. “Questa flessione, all’interno di uno scenario economico rivisto al ribasso – dice Anfia riferendosi alla recessione alla fine dell’anno scorso – mette in allarme il comparto, anche dal punto di vista dell’occupazione complessiva”.

 

La filiera automobilistica era arrivata a occupare poco più di 160 mila addetti l’anno scorso ma è interdipendente da Fiat Chrysler Automobiles soprattutto e dalla produzione automobilistica tedesca che è in calo. Fca ha un piano di investimenti triennale in Italia per 5 miliardi di euro, ma potrebbe rivederlo o ridimensionarlo dopo che il governo ha previsto una misura che per incentivare l’acquisto di auto elettriche colpisce i suoi modelli tradizionali. Compreso qullo più venduto in Italia, la Panda prodotta a Pomigliano, che potrà costare fino a 300 euro in più. In Italia i dipendenti di Fca sono 80 mila, 156 mila addetti se si conta l’indotto. Dal momento che non c’è una produzione massiccia di veicoli elettrici nazionali – Fca ha solo pianificato la costruzione e la realizzazione nei prossimi tre anni di nove modelli ibridi e elettrici – il rischio è quello di avvantaggiare i produttori stranieri.

 

Nel settore della componentistica per automobili, l’Italia è al secondo posto in Europa per fatturato. In Molise e Basilicata il 20 per cento della forza lavoro residente è occupata in un’azienda della filiera, ma riuscire ad adattarla alla transizione energetica richiederà del tempo: un drastico cambiamento indotto da un provvedimento come l’ecotassa del governo Lega-M5s ha l’effetto negativo di prendere le aziende costruttrici in contropiede.

 

Per resistere al duplice contraccolpo della mancata produzione di veicoli elettrici – che sarebbe più duro – e della produzione di veicoli elettrici che comunque andrebbero a ridurre la forza lavoro necessaria al settore, l’alternativa è creare le infrastrutture per fare marciare le auto elettriche e incoraggiare una filiera ad hoc. Con una rete per la ricarica, imprese per lo smaltimento di batterie esauste e manutenzione e servizi adeguati. Al momento anche queste attività sono limitate per non dire carenti o assenti.

 

In questa fase, più che in una transizione energetica per l’automobile, l’Italia appare in un limbo, proiettata verso un futuro elettrico che però non ha minimamente preparato. E’ “questo è il più grande spettacolo che possiate avere occasione di vedere?”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.