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Motivi per parlare di recessione italiana

Mariarosaria Marchesano

La Germania taglierà le stime di crescita, così l'Eurozona. L'Italia sarà investita

Milano. L'ombra della recessione incombe sull'Europa, in particolare sull'Italia che ha legato la manovra economica per il 2019 a una crescita del prodotto interno lordo pari all'1 per cento. Il ministro del Tesoro, Giovanni Tria ridimensiona dicendo che quella in atto è solo una fase di rallentamento. E anche il presidente della Bce, Mario Draghi, ha parlato di "crescita più lenta" smentendo ipotesi peggiori, pur prendendo atto che aumentano i rischi per l'economia dell'eurozona. Una posizione ancora interlocutoria, che è stata solo in parte chiarita dalle dichiarazioni del governatore della banca centrale francese e membro del direttorio della Bce, Francois Villeroy de Galhau, il quale ha dichiarato che l'Eurotower probabilmente ridurrà le stime di crescita della zona euro per quest'anno (le prossime previsioni saranno pubblicate a marzo), "anche se è troppo presto per trarre le conseguenze del rallentamento sulla politica monetaria". Un modo per consolidare il concetto che non ci saranno altri aiuti agli stati dell'Unione se non dopo la verifica dei dati sul peggioramento congiunturale. 

    

Insomma, "recessione" è proprio una parola che in tanti preferiscono non utilizzare (eccetto il ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, il quale, durante un'audizione in Parlamento, ha detto che "una nuova recessione sarebbe inaccettabile perché ci sono gli strumenti per affrontarla" invocando ancora una volta sostegno da parte dell'Unione europea). Eppure, ci sono segnali che indicano che il deterioramento in atto si potrebbe aggravare.

      

Le ultime cattive notizie arrivano dalla Germania, la prima economia dell'eurozona. L'indice di fiducia delle imprese tedesche è calato nel mese di gennaio sotto i 100 punti, che rappresenta il livello più basso da febbraio 2016. E anche l'indice Pmi tedesco è sceso sotto quota 50 (livello che fa da spartiacque tra recessione ed espansione) per la prima volta dal 2014. Si tratta di indicatori molto significativi per misurare lo stato di salute della Germania e il timore è che siano rivelatori di una frenata vera e propria. Secondo alcune indiscrezioni dell'Handelsblatt, infatti, la prossima settimana il governo di Berlino annuncerà un netto taglio delle stime di crescita (dall'1,8 all'1 per cento). Due le cause che avrebbero spinto l'esecutivo a una riduzione così drastica: il rallentamento dell'economia globale e l'incertezza legata all'uscita del Regno Unito dall'Unione europea. Sempre secondo il giornale tedesco, si prevede una risalita del pil interno nel 2020, quando il dato è stimato in aumento dell'1,6 per cento. 

   

A questo punto, c'è da domandarsi in che misura il peggioramento tedesco inciderà sull'economia europea nelle previsioni di marzo e se e come tutto questo può influire sul contesto internazionale. Secondo Alessandro Fugnoli, analista di Kairos-Juliu Baer, "l'economia globale è in questo momento a un punto morto ed è a rischio recessione. Negli Stati Uniti, già in rallentamento da tre mesi, è la stessa Casa Bianca a dire che, se la chiusura di parte della pubblica amministrazione per la mancata inclusione dei fondi per il muro alla frontiera con il Messico si protrarrà, al crescita del primo trimestre potrebbe scendere a zero. L'Europa è segno negativo dall'autunno. E in Cina sono in calo vendite di auto, telefoni e case". 

   

Per Fugnoli, circolano due letture dello stallo in corso: la prima, più diffusa e superficiale, è che si tratta di una serie di crisi idiosincratiche, non legate tra loro, che per coincidenza stanno capitando nello stesso momento. Quindi, colpa della Brexit, dello shutdown, della guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina, del divieto di usare il diesel in tutte le città tedesche (e non solo). Tanti problemi locali, insomma, destinati molto probabilmente a essere tutti risolti nel corso dei prossimi mesi. La seconda lettura, descritta da Fugnoli che cita anche l'economista Richiard Koo come uno dei principali fautori di questa teoria, è più strutturale e parte dalla considerazione che si cresce poco perché si investe poco e si investe poco perché il ritorno sugli investimenti, in particolare in Occidente, è basso. "Le banche centrali non riescono a uscire dalla logica del sostegno alla crescita bassa attraverso le bolle, che però non possono durare in eterno – conclude Fugnoli – Se si vuole uscire da questa logica bisogna mettere mano alla politica fiscale, ma se lo si fa poco e male la crescita rimarrà debole". 

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