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Così la strategia dell'inazione porta lo stato in banche esangui

Alberto Brambilla

Nei bail-out bancari i calcoli politici contano. Ma in Italia la soluzione arriva sempre tardi e dopo avere respinto gli stranieri

Roma. Lo storico Harold James della Princeton University nel saggio “The Creation and Destruction of Value” (Harvard University Press, 2012) riprende il caso del fallimento, nel maggio 1931, della austriaca Creditanstalt, dal 1855 una delle più importanti istituzioni dell’impero austro-ungarico fondata dalla famiglia Rothschild con interessi vastissimi dall’industria zuccheriera a quella motoristica. James sostiene che il collasso contribuì a intensificare la Grande depressione e l’ascesa del movimento nazista. Dall’episodio si capisce che decidere se intervenire in una situazione di crisi bancaria, non farlo proprio, o ritardare un soccorso può avere conseguenze che vanno molto oltre l’industria della finanza. Considerazioni sulla solerzia o l’inerzia della politica verso i bail-out sono state tenute a margine del dibattito accademico dopo la crisi finanziaria perché ci si è concentrati di più sulla opportunità di fare pagare i salvataggi bancari ai contribuenti o di farli pagare ai privati. Tuttavia sono spesso le decisioni politiche a determinare la soluzione (o meno) dei problemi degli istituti di credito.

 

Nel paper del 2017 “The political economy of bank bailouts” vengono ripercorsi i salvataggi di istituti tedeschi dal 1994 al 2010 concludendo che l’interventismo è determinato da scelte personali dei politici, in quei casi soprattutto locali. Per esempio le probabilità di usare soldi dei contribuenti per un soccorso sono del 30 per cento più basse se è prevista una elezione l’anno successivo. Anche l’ideologia politica gioca un ruolo nelle decisioni di salvataggio poiché le iniezioni di capitale sono il 20 per cento meno probabili se un politico fa parte di un partito conservatore. Fin qui si spiegano le motivazioni, e i calcoli, che possono portare a una decisione che rischia sia di essere impopolare sia di incentivare l’azzardo morale di banche che hanno operato male o, al contrario, di salvare un intero sistema. Poi ci sono le tempistiche con cui si agisce. Il caso di scuola è il piano Trouble asset relief program (Tarp), i prestiti federali autorizzati dal Congresso americano ai colossi di Wall Street dopo il crac Lehman Brothers con una decisione tempestiva dell’Amministrazione Obama. Risultato: 441,7 miliardi di dollari recuperati dallo stato su 426,4 investiti e contenimento della crisi. L’Italia ha una traiettoria particolare nel rapporto della politica con i soccorsi bancari che, in sostanza, vengono ritardati al punto da diventare penosi.

 

Il Monte dei Paschi di Siena aveva ricevuto 3,9 miliardi di euro dal governo Monti nel 2012-2013, un prestito a tassi crescenti che ha voluto chiudere al più presto ed evitare anche l’ingresso del Tesoro come azionista. Per ripagarlo ha lanciato un aumento di capitale di pari ammontare l’anno successivo. Non è bastato. Poi si è affacciata la banca americana JP Morgan ma è stata sommersa di critiche condite con ipotesi di complotto della grande finanza, e si è defilata. E’ nel 2017 con una ricapitalizzazione precauzionale per 5,4 miliardi che il Tesoro diventa socio di maggioranza. Risultato: crisi di Mps trascinata per anni e tuttora, con lo stato padrone, non risolta. Con le banche venete Veneto Banca e Popolare di Vicenza c’è stato l’intervento tampone nel 2016 del Fondo Atlante, partecipato da banche e Cdp, che doveva risanarle, ma non ha funzionato. Intesa Sanpaolo nel 2017 le ha rilevate grazie a 5 miliardi dello stato per rafforzare il patrimonio dei due istituti. In entrambi i casi si è trattato di soccorsi emergenziali con il Partito democratico al governo nel 2017 e con le elezioni politiche l’anno successivo, nel 2018. Ma non c’era spazio per opportunismi politici, come suggerirebbero i salvataggi tedeschi, perché non si poteva fare altrimenti. Ad avere capitalizzato consenso sono stati M5s e Lega proprio per avere criticato il governo “amico dei banchieri” e promettendo di rifondare gli investitori “truffati” dalle banche.

 

Ora che M5s e Lega sono al governo la crisi pluriennale di Carige è arrivata all’acme. La Banca centrale europea vuole convincere il riluttante azionista Vittorio Malacalza ad aderire a un aumento di capitale che però ha appena escluso e la banca dovrà cercare un “cavaliere bianco”. Anni fa le avances del fondo americano Apollo furono respinte proprio da Malacalza. Nel frattempo le condizioni per la banca genovese sono peggiorate ed è difficile che sia considerata un bocconcino. Se un investitore estero dovesse di nuovo affacciarsi, la storia dei soccorsi bancari italiani insegna che verrebbe cacciato per difendere “l’italianità”, e perché eventualmente nel momento peggiore – elezioni o no – il contribuente collettivo si dovrà frugare le tasche.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.