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Ritorno allo stato azionista?

Massimo Mucchetti

Alitalia, autostrade. E già con i passati governi Montepaschi, Open Fiber e Ilva. Ma ci vuole una cultura adeguata. Un po’ di storia per evitare errori, anche quelli recenti

Nel volgere di poche settimane potrebbe compiersi la nazionalizzazione dell’Alitalia, con il concorso dell’americana Delta o di una delle tre compagnie aeree cinesi nella posizione del socio industriale. Dopo il crollo del ponte Morandi, il governo ha annunciato il proposito di nazionalizzare le concessioni autostradali. Non è detto che le due iniziative vadano in porto. Ma l’idea della nazionalizzazione è ormai sdoganata nell’opinione pubblica, in larga maggioranza leghista e pentastellata. Del resto, già nella precedente legislatura, governante il centro-sinistra a trazione renziana e poi gentiloniana, lo Stato aveva acquisito il Monte dei Paschi, varato Open Fiber, riconquistato posizioni in Tim, promosso un’offerta d’acquisto per l’Ilva ancorché non coronata poi dal successo.

 

Questo ritorno dello Stato azionista costituisce una svolta potenzialmente radicale rispetto all’idea, prevalsa per trent’anni, dello stato minimo, che non partecipa al capitale delle imprese né fa politica industriale, ma si limita a regolare le attività economiche delegate in toto alla mano privata o, se proprio si trova a conservare il controllo di fatto di una grande impresa, persegue lo shareholder value come un investitore istituzionale qualsiasi. E tuttavia questa svolta non appare sostenuta da un’adeguata base culturale: non da una solida ricostruzione storica del Novecento, che trascinò lo Stato azionista nella polvere, dopo averlo prima innalzato sugli altari, e nemmeno da una forte riflessione prospettica sulle trasformazioni dell’attività economica, privata e pubblica, che sono generate dallo sviluppo delle tecnologie, di quelle digitali anzitutto, e sull’influenza che tali trasformazioni esercitano sul ruolo dello Stato regolatore e dello Stato azionista.

 

L’idea della nazionalizzazione è ormai sdoganata nell’opinione pubblica, in larga maggioranza leghista e pentastellata

Il salvataggio delle ex popolari venete. Ma non ci sono soltanto i salvataggi: i dubbi sui percorsi seguiti per Tim e Ilva. Il ruolo di Cdp

Riempire questo vuoto non appare né facile né rapido. Servirà un’opera di lunga lena. Che non può non iniziare dalla qualificazione realistica delle ultime mosse dello Stato azionista, fatte e in fieri. La ricapitalizzazione del Monte dei Paschi a opera del Tesoro è da classificarsi come un salvataggio. Analogo, certo, ai salvataggi bancari avvenuti in altri paesi europei dopo il crac Lehman, e tuttavia assai diverso dai salvataggi classici – dai salvataggi all’italiana, se vogliamo – del secolo scorso. Le differenze, non banali, possono essere istruttive per il governo.

 

Negli anni Trenta, Comit, Credit e Banco di Roma passarono dalla mano privata a quella pubblica nel quadro di una vera e propria rivoluzione della finanza italiana. Le tre grandi banche erano sostanzialmente fallite. Negli anni precedenti, avevano goduto della piena libertà di assumere partecipazioni industriali e, al tempo stesso, di essere possedute dalle aziende partecipate e finanziate senza alcun riguardo ai fatali conflitti d’interesse generati da quella totale deregulation. Il rimedio a quel disastro fu il salvataggio delle tre banche a opera dell’Iri, all’uopo costituito dalla dittatura fascista che accolse i suggerimenti di personaggi non fascisti come Raffaele Mattioli e Alberto Beneduce. Il salvataggio pubblico ebbe l’effetto voluto di rompere la “fratellanza siamese” tra credito commerciale da una parte e credito a lungo termine e attività finanziarie dall’altra.

 

Negli anni Novanta, regista unica e indiscussa la Banca d’Italia, governatore Antonio Fazio, il salvataggio della parte migliore del Banco di Napoli avvenne a opera di banche e assicurazioni quotate in Borsa con il finanziamento pubblico della liquidazione della bad bank. Il contesto regolatorio era cambiato, essendo stata sostituita la Legge Bancaria del 1936 con il Testo Unico Bancario (TUB) del 1993. Il lento salvataggio delle banche centromeridionali, che, sempre regista Fazio, formarono Capitalia, si protrasse nel tempo fino a quando non si crearono le condizioni, regista il nuovo governatore Mario Draghi, per il passaggio di Capitalia a UniCredit.

 

Nella scorsa legislatura, con il TUB integrato dalle disposizioni europee sull’incipiente Unione bancaria, i salvataggi bancari hanno seguito due strade, non senza incertezze e opacità nel processo decisionale del governo: la prima si è concretizzata nella nazionalizzazione del Monte dei Paschi, dopo un improbabile tentativo di affidarne la ricapitalizzazione a JP Morgan; la seconda strada si è concretizzata nel trasferimento delle parti decenti delle ex popolari venete a Intesa Sanpaolo, sussidiata a fondo perduto dal Tesoro, e con la liquidazione del resto.

 

Tre osservazioni storiche

Questa sequenza storica suggerisce tre osservazioni. Anzitutto, gli oneri per lo Stato. La costituzione dell’Iri fu un affare per lo Stato. Lo sostenne il banchiere Enrico Cuccia, strenuo difensore del capitalismo italiano privato nel mezzo secolo che seguì la Seconda guerra mondiale. Che poi il rendimento dell’Iri non abbia ripagato a termine il costo del capitale, come ha rilevato la stessa Mediobanca nell’ottobre del 2000, ma certo non abbia nemmeno portato a un fallimento, come ha calcolato chi scrive nella Storia dell’Iri, è un altro e ben più complesso discorso che faremo in un’altra occasione. Il salvataggio del Banco di Napoli determinò un costo generato dal tasso d’interesse inferiore a quello ordinario applicato alle emissioni di debito pubblico a favore della liquidazione che, peraltro, consentì poi il recupero dei valori netti degli attivi. Un costo assai limitato se si guarda alle esperienze post 2008. L’operazione Capitalia fu resa possibile dalla collaborazione della banca centrale con il governo. Aiutò molto a reggere nel tempo l’enorme massa di crediti deteriorati la legge sulle cartolarizzazioni, varata dal governo D’Alema. Il risultato, anni dopo, fu la cessione di Capitalia a UniCredit a prezzi tali da consentire al dominus della banca romana, Cesare Geronzi, di vantare la maggior creazione di valore per gli azionisti degli ultimi decenni, un esito divertente ove si consideri che Geronzi, il banchiere di sistema per eccellenza, è un feroce critico della teoria dello shareholder value.

 

Il salvataggio delle ex popolari venete, invece, determina una fuoriuscita secca di denaro dalle casse del Tesoro, mentre l’intervento diretto del Monte dei Paschi è al momento in pesante perdita. Una circostanza, quest’ultima, che suggerisce giudizi negativi, dai quali, tuttavia, conviene per il momento astenersi sia perché la minusvalenza teorica corrente andrebbe confrontata con i costi finanziari, sociali ed economici del fallimento di una grande banca come il Monte sia perché il risanamento del Monte, in una fase critica per tutte le banche, richiede tempo. Del resto, pure il Tesoro di Sua Maestà è ancora socio al 62 per cento della Royal Bank of Scotland e nessuno nella City si scandalizza dato che, a 10 anni dal salvataggio, le quotazioni di RBS sono ancora troppo basse per vendere senza subire perdite gravi. Verrebbe da concludere che si stava meglio quando, sul piano politico-regolatorio, si stava peggio, ma non cederemo a tentazioni nostalgiche. Ci limiteremo a esortare chi ha preso le decisioni degli ultimi 10-12 anni, ed è sempre in sella, a praticare la virtù cristiana dell’umiltà allo scopo di imparare dall’esperienza.

  

La seconda osservazione riguarda la classe politica. Negli anni Trenta e anche negli anni Novanta, il governo ebbe la capacità di ascoltare persone di riconosciuto valore distanti da palazzo Venezia o da palazzo Chigi. Nella scorsa legislatura, invece, il governo Renzi dettò la linea spregiando i diversamente pensanti. Il successivo governo Gentiloni ne fu pesantemente condizionato. Fino alla farsa della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle crisi bancarie dove il contrasto tra classe politica e banca centrale, lungi dall’approfondire la genesi delle crisi bancarie e delle relative soluzioni, si è risolto in polemiche superficiali e inutili da parte dei partiti. Questa legislatura ha la possibilità di essere migliore. Una possibilità non ancora sostenuta da fatti, ma ogni governo in luna di miele merita una prudente e temporanea apertura di credito.

 

La terza osservazione riguarda il contesto internazionale. Negli anni Trenta, il governo poté perseguire l’interesse nazionale entro i confini dello Stato, senza per questo rinchiudersi nel provincialismo come dimostrano le impressionanti assonanze tra la Legge bancaria mussoliniana e il Glass Steagal Act rooseveltiano. Negli anni Novanta, pur avendo liberalizzato la circolazione dei capitali, la Vigilanza e le relative Istruzioni restavano nazionali. Nei tempi recenti, invece, l’azione di governo è stata e sarà comunque condizionata dalle direttive della Commissione europea e del Comitato di Basilea. Queste circostanze non giustificano illusori tentativi di riportare indietro l’orologio della Storia – alla Legge bancaria del 1936 o al Glass Steagal Act, se si vuole concedere qualcosa all’esterofilia –, ma fanno certamente emergere l’urgenza di un’efficace azione di governo, di concerto con la banca centrale, per perseguire l’interesse nazionale nel quadro dell’Unione bancaria e della Vigilanza unica con particolare riferimento ai criteri contabili per la ponderazione degli attivi per il rischio (credito commerciale, titoli finanziari privati, obbligazioni pubbliche) e alla correlata ridefinizione dei requisiti di capitale.

 

Negli anni Trenta, Comit, Credit e Banco di Roma passarono in mano pubblica nel quadro di una vera e propria rivoluzione della finanza

Se lo stato non è più un mero shareholder value, deve chiarire a tutti le sue ambizioni e e disporre delle adeguate competenze

Il ritorno dello Stato azionista, tuttavia, non si esaurisce nei salvataggi bancari. Come abbiamo ricordato all’inizio, nell’ultima parte della passata legislatura, lo Stato ha ripreso a esercitare un ruolo rilevante nelle telecomunicazioni. Enel e Cassa depositi e prestiti (Cdp) hanno fondato la società Open Fiber per posare la fibra ottica in competizione con Tim, ritenuta troppo poco impegnata nelle reti di nuova generazione. Open Fiber, inoltre, si è detta più volte pronta a rilevare la rete storica di Tim, ma a prezzi inferiori a quelli ai quali tale rete è in carico all’ex monopolio privatizzato nel 1997. Alla conseguente, ovvia resistenza opposta da Tim, il governo ha reagito facendo scalare Tim alla Cdp anziché usare il suo soft power sul socio di maggioranza di Tim, la francese Vivendi, e il suo hard power su Open Fiber per unire le forze ed evitare di farsi tutti male costruendo due reti dove ne basta una. Last but not least, Cdp scala Tim d’intesa con il fondo speculativo americano Elliot allo scopo di sostituire gli amministratori nominati dai francesi.

 

L’andamento deludente delle quotazioni di Tim e il ritorno probabilmente scarso degli investimenti di Open Fiber giustificano un certo scetticismo circa l’efficacia di questo ritorno dello Stato azionista. E tuttavia, in questa sede, più del giudizio di merito su questa sortita, preme annotare due punti: a) la linea della classe politica è ormai l’opposto di quella di ieri: dalla neutralità astensionista all’interventismo ostile; b) una tale inversione di rotta è stata avviata dal governo Renzi sulle ali di una politique d’abord fondata sull’ignoranza (sulla manipolazione?) della storia. I lettori del Foglio ricorderanno come ripetutamente l’allora premier censurasse la madre di tutte le privatizzazioni attribuendola al suo avversario D’Alema quando, invece, venne fatta dal governo Prodi, ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, direttore generale Mario Draghi. Una confusione storica che ha precluso agli ultimi governi di centro-sinistra di fare i conti con le quattro grandi scelte di vent’anni fa, a mio parere sbagliate: a) il blocco dello sviluppo industriale di Telecom (stop al piano Socrate per posare la fibra ottica, stop al progetto di acquisizione di Vodafone) per non rafforzare il management uscente in vista dell’offerta pubblica di vendita della partecipazione del Tesoro; b) l’affidare alla Borsa una società quasi senza debiti, e dunque bersaglio ideale di un leveraged buy out; c) la ricerca della stabilità gestionale post privatizzazione puntando su un nocciolo duro di azionisti a lungo termine che avrebbe dovuto essere selezionato dalla Morgan Stanley (che non consegnò il risultato) anziché da una banca italiana come Mediobanca, regina dei patti di sindacato; d) non schierare la partecipazione residua del Tesoro in Telecom Italia contro la Olivetti colaninniana che si preparava a lanciare l’Opa; la vulgata presentò quell’Opa come l’Opa del secolo dimenticando come fosse finanziata prevalentemente a debito, quel fardello che, con l’aggiunta dei debiti fatti dalla successiva gestione Pirelli, tuttora zavorra la società.

 

Un problema di nome Ilva

Infine, l’Ilva. A tal proposito basterà ricordare che la cordata promossa dalla Cdp, con Delfin (Del Vecchio), Arvedi e con il siderurgico indiano Jindal, ha avanzato un’offerta d’acquisto singolare: a parità di margini industriali attesi, essa proponeva un prezzo inferiore di un terzo a quello del concorrente ArcelorMittal. Come mai la Cdp si prende rischi industriali enormi nelle telecomunicazioni, andando dietro a un soggetto non esperto del ramo come l’Enel e a un fondo speculativo come Elliot, e si dimostra così prudente nella siderurgia dove poteva contare su partner finanziari e industriali disposti anche a valutazioni più generose? Gli storici, carte alla mano, diranno una parola definitiva. Ma al momento sorge il ragionevole dubbio che la Cdp non avesse un vertice capace di valutare il merito industriale dei rischi da assumere. Un dubbio che ne evoca subito un altro, ossia la subalternità del vertice alle sollecitazioni non sempre trasparenti degli azionisti della Cdp, pronti anche a perdere su Tim e magari convinti di “fare l’affare” su Ilva in virtù di un sopravvalutato potere d’influenza del governo sull’esito della gara per quanto tale gara fosse strettamente sorvegliata dalla commissione Ue.

 

Veniamo, per concludere, alle nazionalizzazioni. L’idea di sottrarre alla mano privata le concessioni autostradali ha un solo precedente nella storia contemporanea: la nazionalizzazione delle aziende elettriche, quel cartello conservatore che si era meritato gli strali di Ernesto Rossi. Per capirci, l’Iri, l’Egam, l’Efim, la Gepi rilevarono industrie fallite. L’Eni deriva dalla liquidazione mancata dell’Agip che venne inutilmente posta in vendita per 600 milioni nel 1945. L’Ina venne costituito nel 1912 per iniziativa del governo Giolitti. Solo l’Enel si formò, nel 1962, dalla nazionalizzazione delle società elettriche e dalla loro successiva aggregazione. Gioverà ricordare che lo Stato versò nelle casse di Edison, Sade e consorelle una cifra enorme, 2 mila miliardi di lire, calcolata sulle quotazioni massime raggiunte in Borsa dalle medesime. La nazionalizzazione ebbe un esito buono, l’accelerazione dell’elettrificazione del paese, ma anche uno cattivo, la prolungata gelata della Borsa e il cattivo uso che gli ex elettrici fecero di quel generosissimo risarcimento, criticato nel 1978 perfino da Guido Carli, già governatore della Banca d’Italia e allora presidente della Confindustria. Come e più che per gli interventi già effettuati nella scorsa legislatura, l’evocazione delle nazionalizzazioni delle concessioni – ora le autostrade, domani chissà – gode in questo momento di un consenso la cui estensione presso un’opinione pubblica scandalizzata dai limiti operativi degli attuali padroni del vapore e dalla loro capacità di catturare il regolatore appare inversamente proporzionale alla conoscenza del passato e alla consapevolezza dei costi e dei benefici del futuro. Insomma, fare l’azionista, di controllo o comunque rilevante, è sempre un mestiere più sofisticato di quello del mero tagliatore di cedole. Se poi l’azionista è lo Stato, la complessità aumenta, posto che lo Stato dovrebbe perseguire la crescita del Pil, più che il mero shareholder value, nel rispetto della disciplina finanziaria nelle imprese partecipate, della concorrenza sul mercato, della giustizia sociale dentro e fuori dalle aziende. Com’è facile capire, un azionista con tali ambizioni non può non chiarire bene a tutti la missione che attribuisce al questo suo braccio secolare e, al tempo stesso, non può non avvertire l’urgenza di disporre delle conseguenti, adeguate competenze.

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