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Il foglio 48 ore

La metamorfosi dell'auto, Fiat viaggia lontano da qui, col retrovisore

Giuseppe Berta

Il Gruppo Fca ha testa e portafogli in America, l’Europa è marginale. Il post Marchionne riapre l’incognita sulla capacità di rivaleggiare con i produttori di massa. Ma senza modelli e nuove idee si accelera il distacco dall’Italia

Stando alle cifre del mercato dell’auto nordamericano di settembre, Fiat Chrysler non è più l’ultima delle Big Three di Detroit. In un periodo in cui le vendite sono state in contrazione del 5,5 per cento rispetto al settembre 2017, la casa che è stata guidata da Sergio Marchionne fino alla primavera scorsa ha venduto circa 3 mila veicoli più della Ford (199.819 contro 196.496). Ciò colloca Fca al secondo posto, al di sotto della General motors. E non basta: mentre quest’ultima e Ford hanno subìto dei cali rilevanti, Fca è aumentata del 15 per cento. Naturalmente, si tratta di un dato congiunturale che non sarà facile ripetere. Non di meno, in questo momento premia un orientamento e offre un’indicazione sul mutamento dell’automotive in corso in America.

  

Anzitutto, il risultato di Fca mostra come la decisione di collocare Mike Manley nella posizione che era stata di Marchionne sia stata probabilmente quella giusta, se si guarda all’alta dirigenza del gruppo. La scelta è caduta su un “car guy”, su un uomo di Detroit, che non ha probabilmente nessuno dei caratteri di Marchionne ma che ha saputo conseguire degli obiettivi qualificanti. Sua è stata la responsabilità del marchio di maggior successo del gruppo, Jeep, che ha riscattato dall’angolo in cui era finito. Ma sua e della squadra di Auburn Hills è l’azione strategica più importante, seguita poi anche da Ford e Gm, che consiste nell’abbandono della produzione classica per concentrarsi su Suv, crossover e pickup, cioè sulle linee di prodotto a più elevata redditività e col maggior potenziale di mercato. Se si scompone il dato aggregato delle vendite, si riscontra che la fortuna di Jeep e di Ram è fondata sulla loro affermazione in quello che costituisce oggi l’elemento americano per eccellenza della produzione automobilistica. Il resto, infatti, non è nemmeno complementare ma spesso residuale. Gm e Ford hanno imboccato la medesima direzione. Nell’aprile scorso, nel proprio spazio espositivo collocato nella sede del Renaissance Center, Gm ha celebrato il centenario dei proprio pickup, esibendo la varietà dei prodotti che oggi possono essere realizzati sulle proprie piattaforme. Ford, invece, impegnata in una complessa transizione verso un nuovo assetto di gruppo che è quasi un modo per ridisegnare la propria missione produttiva, è perfettamente consapevole che la sua redditività si fonda oggi su una linea di prodotto di cui il pickup F150 è l’ultimo, fondamentale esemplare. Di recente l’Economist ha stimato addirittura in quasi 13 mila dollari il margine di profitto assicurato da questo veicolo. Per i Suv e i pickup fabbricati da Fca il margine ipotizzato si colloca mediamente fra i 3 e i 4 mila dollari. Oggi nessun altro segmento di mercato può garantire un simile polmone economico, essenziale per le imprese dell’auto, coinvolte in una fase di complessità crescente e di risultati calanti.

 

I produttori americani sembrano lasciare ad altri la produzione delle vetture classiche, le berline, che in questo momento danno ben poche soddisfazioni. Anche i giapponesi, che occupano per lo più questo segmento con la loro offerta, sembrano attraversare una fase contraddittoria, all’interno di un mercato dominato da altre tendenze. Paradossalmente, qualche segnale lascia intuire le possibilità che potrebbero avere, in prospettiva i prodotti di Tesla, una volta che si venisse a capo della strozzatura organizzativa che penalizza la loro fabbricazione e distribuzione. In tanti si cominciano a domandare che cosa potrebbe diventare Tesla se non fosse più assoggettata alla volontà dispotica, ma anche erratica, del suo fondatore Elon Musk. Se un giorno si profilasse una diversa gestione, essa potrebbe probabilmente beneficiare di opportunità di mercato che non si ancora configurate appieno.

 

Tornando al mondo dei produttori di massa, Gm e Ford dispongono di risorse e disponibilità all’investimento ben superiori a quelle che può mobilitare Fca. Ford sta investendo 11 miliardi di dollari in un piano di ristrutturazione ambizioso, dove non ci sono solo la razionalizzazione produttiva e la scommessa sull’elettrico e sulla guida autonoma, ma l’ipotesi di un’alleanza con Volkswagen tale da disegnare, se si concretizzasse, il più vasto presidio dei mercati che si sia mai visto nel settore. Gm ha appena siglato un’intesa con Honda che va nel senso della cooperazione sul fronte dei sistemi di guida autonoma. Il rapporto di Fca con Waymo per la Google Car non ha evidentemente la stessa portata, giacché per ora la collaborazione riguarda la fornitura di 62 mila minivan Pacifica da equipaggiare con tecnologie driverless di Alphabet-Google. Solo in seguito se ne potranno valutare le ricadute.

 

Purtroppo, lo scenario europeo di Fca è lontano da quello americano. Qui i numeri non sono confortanti, a partire da quel 40 per cento in meno nelle vendite di settembre che hanno fatto registrare in Italia i marchi del gruppo. Ciò che preoccupa non è tanto un dato mensile influenzato da vari fattori, ma la curva discendente in atto da inizio anno, che tocca in special modo i modelli Maserati, prodotti a Torino, con le ripercussioni sulla produzione industriale del nostro Paese.

 

A oltre quattro mesi dal piano industriale varato da Marchionne il 1°giugno scorso, le prospettive di Fca per l’Italia e l’Europa permangono indeterminate. Del “polo del lusso”, con la convergenza dei due marchi Alfa Romeo e Maserati in un’unica struttura, non si parla più, tant’è che essi sono stati ora affidati alla gestione di due manager differenti all’interno della nuova compagine direzionale che Manley ha disegnato attorno a sé. Di conseguenza, persistono molte incertezze sul modo in cui verrà rafforzata l’offerta nel segmento più alto del mercato. La quota Alfa resta ancorata a quel 2,5 per cento del mercato interno da cui non si distacca da anni, nonostante i piani aziendali (sia il nuovo che il precedente) delineino per il marchio uno scenario di grande sviluppo. Ma per il momento tutto continua ruotare attorno a due modelli, Giulia e Stelvio. Di recente John Elkann ha richiamato l’intenzione di progettare e fabbricare in Italia una Cinquecento elettrica, dopo aver preannunciato per il 2020 la produzione di una Jeep ibrida. Ma nulla si sa né dell’entità dell’investimento, né della sua cadenza temporale, né quali siti produttivi saranno interessati. Sono le questioni con cui dovrà confrontarsi il nuovo responsabile di Fca per l’area Emea, Pietro Gorlier, che dovrà probabilmente occuparsi di razionalizzare una struttura produttiva caratterizzata da una capacità in eccesso. Tanto più se, come ha comunicato Manley, lo scopo di Fca resta quello di stare fra i gruppi automobilistici a più elevata redditività. In questa logica, se i profitti vengono in primo luogo dagli Stati Uniti, là dovranno essere indirizzati di preferenza gli investimenti. Ma allora qual è la parte destinata all’Italia?

 

In prospettiva, il luogo di catalizzazione dell’automotive italiano tende a essere la Motor Valley emiliana, col suo reticolo articolato ma fortemente integrato di imprese e iniziative capaci di aumentare sia la coesione sistemica dell’area sia il suo potenziale d’attrazione. Lì si ritrovano skill, competenze ed esperienze d’impresa, aggregati in uno spazio territoriale dove convivono produzione di alto livello, servizi sofisticati, centri di ricerca privata e pubblica. Se in Italia ci sarà sempre meno mass production e più sforzo sull’alta gamma, è a questo spazio che bisogna guardare.

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