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Ecco tutti gli indizi che confermano la tentazione di Elkann di vendere Fca

Giuseppe Berta

Le attività in nord America sono il fulcro del gruppo, ma l’Europa è l’anello debole senza investimenti né nuovi modelli

Milano. L’incontro tra i nuovi manager di Fiat-Chrysler e i sindacati (oggi con le organizzazioni dei metalmeccanici che hanno firmato il contratto, domani con la Fiom-Cgil) avviene mentre si allungano le ombre sul sistema internazionale dell’Auto.

 

La notizia di questi giorni è l’intenzione di General Motors di procedere alla chiusura di alcuni stabilimenti del nord America, con una significativa ripercussione sugli organici, dal momento che si ipotizza una riduzione di 14.700 posti di lavoro. Non sembra che la reazione irata del presidente Trump, dettata dalla sua promessa di restaurare i fasti dell’America industriale di un tempo, potrà incidere molto sugli orientamenti di Mary Barra, ora più che mai saldamente alla testa di Gm. I tagli, spiegano a Detroit, sono richiesti dalla necessità di focalizzare gli sforzi su guida autonoma, intelligenza artificiale applicata alla mobilità, piattaforme elettriche: in una parola sull’auto di domani. Nella stessa direzione si sta muovendo da tempo Ford, che ha fatto della mobilità, e non più soltanto della fabbricazione di vetture, il proprio business.

  

 

Quello che a tutti gli effetti è il terzo produttore di Detroit, Fca, non ha annunciato una scelta così netta, ma ha già fatto di Suv e pick-up l’asse delle proprie attività, riscuotendone un positivo riscontro di mercato. Col risultato che oggi il gruppo ruota attorno a due marchi, Jeep e Ram, mentre gli altri sono entrati, specie in Europa e in Italia, in una zona opaca, indeterminata. Il piano industriale, l’ultimo atto importante di Sergio Marchionne, presentato a Balocco il 1° luglio, non ha finora reso meno incerte le prospettive di Fca.

 

Anzitutto, perché era un piano soltanto a metà, nel senso che indicava, sì, i volumi complessivi d’investimento e fissava degli obiettivi generali, ma senza articolarli poi a livello delle singole unità produttive, che così sono rimaste nel dubbio circa il loro destino. Inoltre, il piano si occupava soltanto di quattro marchi – Alfa Romeo e Maserati, oltre a Jeep e Ram –, lasciando più nel vago gli altri. Di qui le preoccupazioni circolate in Italia, un paese che ha perso indubbiamente di peso nel sistema Fca.

 

Negli ultimi tempi, per esempio, non si è più parlato del “polo del lusso”, cioè dell’ipotesi di mettere assieme Alfa e Maserati, potenziando il made in Italy del gruppo. Anzi, Maserati sta soffrendo parecchio negli ultimi tempi, mentre l’offerta di Alfa (centrata attorno a due prodotti, Giulia e Stelvio) non è tale da impensierire concorrenti come Mercedes, Audi, Bmw, Toyota, e altri. Oggi saranno comunicate le allocazioni dei nuovi prodotti, cioè quali nuovi modelli saranno realizzati nei vari impianti. Ma al di là delle specifiche soluzioni che saranno presentate, salta all’occhio come per Fca ci sia un problema di razionalizzazione della capacità produttiva.

 

Se le attività in nord America sono il fulcro del gruppo, ciò che assicura i suoi livelli di redditività, è chiaro allora che l’Europa è l’anello debole. Per venirne a capo bisognerebbe dunque, da un lato, intervenire sulle strutture di produzione e, dall’altro, investire di più sulla progettazione e la realizzazione di nuovi modelli. Altrimenti le quote di mercato di Fca continueranno a ridursi, nonostante il buon risultato conseguito dal marchio Jeep. Fino a quando non saranno affrontati questi nodi, il futuro di Fca non uscirà dall’incertezza. L’ultima operazione che è stata condotta a termine, la cessione di Magneti Marelli al fondo Kkr, non rappresenta una mossa su questo versante, se è vero che una parte cospicua dei proventi (2 miliardi di euro) andranno al pagamento dei dividendi. Intanto, sta guadagnando terreno l’ipotesi che anche Comau, azienda del gruppo specializzata nella produzione di tecnologie, possa diventare oggetto di un’altra vendita. Si ha quasi l’impressione di essere davanti a una “politica del carciofo”, le cui foglie, a una a una, vengono staccate dal ceppo per essere cedute sul mercato. Ciò avrebbe senso se l’intento fosse analogo a quello di Gm e Ford, che si alleggeriscono delle loro attività più tradizionali per puntare di più sul cambio di paradigma tecnologico che sta investendo il sistema dell’Auto su scala mondiale. Ma Fca ha concentrato i propri sforzi su Suv e pick-up come gli altri produttori americani, senza per questo esibire la loro medesima determinazione nell’applicarsi alla svolta tecnologica. D’altronde, il gruppo non può rimanere a lungo a metà del guado, nonostante sostenga di poter proseguire da solo. La sua posizione finanziaria e debitoria sta peggiorando, mentre non si coglie una volontà strategica d’investimento pari a quella dei concorrenti. Ma se è così, allora occorre prepararsi ad altri scorpori. Accanto alla questione del mutamento del paradigma dell’Auto e alla minaccia incombente del protezionismo, c’è un’altra tendenza da considerare, che può influire anch’essa su Fca.

 

Il caso Ghosn, coi suoi molti aspetti oscuri, rivela che, dopo la stagione in cui l’impresa ha assunto una fisionomia e una caratura globali, ora stanno riguadagnando forza i modelli continentali e nazionali. Si torna a parlare dei caratteri specifici dell’impresa asiatica, europea, americana, perché i produttori tendono a riaffermare la loro identità. Da questo punto di vista, è stata anticipatrice la resistenza di Mary Barra a Sergio Marchionne, quando questi invocava le ragioni della concentrazione. Adesso Nissan vuole riappropriarsi di un margine di autonomia, ciò che spingerà Renault alla difesa delle proprie prerogative francesi, e così via. In questa dinamica può giocare una parte l’anima italiana ed europea di Fca, che potrebbe rientrare benissimo nel gioco di scomposizione e ricomposizione dell’industria dell’Auto europea che si potrebbe aprire, magari per effetto di una crisi dell’alleanza Renault-Nissan-Mitsubishi. Però, per Fca significherebbe prendere atto che è sempre più difficile governare quella che gli analisti hanno indicato come la “disfunzionalità” del gruppo, con la crescente problematicità di tenere assieme le componenti americana ed europea. La politica degli scorpori progressivi del proprio patrimonio industriale avviata da Exor potrebbe prefigurare degli esiti inediti.

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