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Grillo elogia (a torto) Di Maio per avere spinto Foodora (che se ne va da sola) a lasciare l'Italia

Maria Carla Sicilia

Non solo è malsana e surreale l’idea di Grillo di festeggiare l’addio di una multinazionale dal paese. Il danno di avere tentato di eliminare la libera concorrenza

Roma. Qualche giorno dopo che Delivery Hero ha fatto sapere di volere vendere le attività della sua controllata Foodora in Italia, il Senato ha convertito il decreto dignità in legge. Le due vicende tuttavia non sono direttamente collegate, come ha spiegato la società tedesca dando la notizia di voler abbandonare anche Australia, Olanda e Francia, perché poco profittevoli, e di volere investire sui mercati dove è più forte per cercare di ottimizzare i ricavi. Beppe Grillo tuttavia sembra ignorarlo e martedì ha affidato a un post sul suo blog l’elogio a Luigi Di Maio per aver “creato acque difficili a questi pizzicagnoli del lavoro”. “Sono orgoglioso dell’operato di Di Maio”, dice il guru del Movimento 5 stelle, che immagina un giorno di festa nazionale per festeggiare la notizia.

  

Grillo continua ad alimentare la retorica secondo cui i “ciclosfruttatori” approfittano dei fattorini ma non apportano benefici all’economia italiana e all’occupazione e non si cura del fatto che, se Foodora abbandonasse davvero il paese, 1.500 lavoratori a cui vengono regolarmente pagati i contributi, legati al committente con contratti di lavoro para subordinato, dovrebbero cercarsi un’altra occupazione. Per fortuna per chi lavora come rider, l’azienda ha garantito di voler continuare le attività fino a quando non sarà conclusa l’operazione di acquisizione in corso. Delivery Hero ha detto che sta valutando alcune offerte e in ogni caso alle altre piattaforme online che lavorano in Italia potrebbe convenire accogliere i fattorini ex Foodora: il food delivery è un business di volume, come ha chiarito anche l’Inps nell’ultima relazione annuale che dedica un ampio capitolo al settore. Maggiore è il numero di consegne per unità di tempo, maggiore è l’incasso, e la domanda in Italia non sembra essere carente. Secondo un report della holding Comunicatica, il mercato nel paese vale 2 miliardi di euro, offre ancora molto spazio ma ha una penetrazione superficiale e la frammentazione tra diversi piccoli player non ne aiuta lo sviluppo. In questo contesto la vendita di Foodora è un’occasione interessante per chi cerca di fare massa e crescere. D’altra parte il fatto che per la multinazionale tedesca il nostro mercato non sia profittevole svela che per fare affari nel food delivery l’accesso a capitali generosi non è tutto, come dimostrano anche le esperienze di alcune promettenti start up in Italia.

  

Per quanto sia surreale immaginare “un giorno di festa nazionale” per celebrare il fatto che un’impresa vada via dal paese, come immagina Grillo, il Movimento 5 stelle in questa storia non ha niente da rivendicare. Dopo aver usato i fattorini in bicicletta come simbolo della lotta per la dignità dei lavoratori, arrivando a inserire nel decreto l’obbligo di assumere come subordinati i rider, Di Maio ha poi fatto diversi passi indietro. Al tavolo di confronto tra addetti ai lavori che riprenderà a settembre al ministero dello Sviluppo economico, la carta dei valori di Foodora, Moovenda, Foodracers e Prestofood, è diventata di fatto il modello a cui il ministro ha fatto riferimento, a giudicare dalle richieste minime che ha avanzato agli operatori dopo aver abbandonato le prime e più onerose pretese. In parte però qualche forma di responsabilità, seppure involontaria, per la ritirata di Foodora c’è. La concorrenza sul mercato italiano del food delivery è spietata perché, adottando tutele e contratti diversi per i rider, ogni impresa affronta costi strutturali differenti. Se il tavolo del ministro avesse raggiunto l’obiettivo di uniformare gli standard, paradossalmente avrebbe fatto un favore a Foodora, portando alcuni dei suoi concorrenti a spendere di più. Delivery Hero invece ha deciso di non aspettare l’esito della concertazione e di concentrarsi altrove. I giochi restano aperti e in assenza di un quadro normativo definito i 1.500 rider di Foodora possono solo sperare che il loro prossimo datore di lavoro gli riconosca almeno gli stessi trattamenti economici e assicurativi che Foodora garantiva.

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