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A cosa non ha pensato il legislatore con il decreto dignità

Michele Faioli*

L’illusione che la norma cambi la realtà è fanatismo, la nuova legge sull'occupazione produrrà solo più lavoro a termine

Il decreto dignità è stato convertito in legge. Porta con sé contraddizioni che sono state già rilevate da tanti. Ma una di queste è decisiva per capire la traiettoria di questo legislatore: il lavoro a termine si basa sulla direttiva CE 99/70 che stabilisce che l’utilizzazione dei contratti di lavoro a termine basata su ragioni oggettive è uno dei modi per prevenire gli abusi. Cioè, “un modo”, non “il modo”. Tra i modi anti elusivi si nota anche il raggiungimento di una certa data, o il completamento di un compito specifico, o ancora il verificarsi di un evento specifico. Tali modi, secondo la Corte costituzionale, possono essere considerati alternativi (sent. 41/2000). Ne basta uno e uno solo, nel senso che il legislatore sceglie di applicarne uno, ponderando la situazione storica, economica, sociale del paese. Ed è qui la contraddizione: il legislatore del 2018, a differenza dei legislatori del 2014 e del 2015, che avevano scelto un solo modo, dotato di un alto livello di certezza (termine finale dei 36 mesi), affida il ricorso al lavoro a termine a una ambivalente combinazione tra modi di prevenzione degli abusi, cioè, da una parte, c’è la necessaria giustificazione, con una prova, in caso di contenzioso, in negativo (la “non” riferibilità all’attività ordinaria o la “non” programmabilità dell’attività ordinaria), e, dall’altra, il termine (12/24 mesi). Anzi, si può dire che il termine dei 12/24 mesi ha un senso, per il legislatore del 2018, perché è collegato a tale giustificazione in negativo. Con altre parole, il legislatore del 2018 ritiene che si tuteli di più la dignità dei lavoratori con una disciplina sul lavoro a termine vincolata a ragioni oggettive non riferibili all'attività ordinaria o non programmabili. Ma perché questa ambivalente combinazione tra modi, con doppia formula negativa (non riferibilità e non programmabilità), dovrebbe, nel futuro, secondo il decreto dignità, spostare il baricentro dell’occupazione dal lavoro a termine al lavoro a tempo indeterminato?

  

Per rispondere non basta evocare le regolazioni di altri paesi europei sulla giustificazione del lavoro a termine, tra cui Francia e Germania. Chi si occupa di diritto comparato sa che le regole di altri paesi non possono essere trapiantate. Al massimo, comparando gli ordinamenti, ci si guarda allo specchio, diceva il giurista Gorla. C’è, dietro la logica della giustificazione con la doppia negazione, una sorta di devozione fanatica rispetto alla norma: si è convinti che con una norma si possa riportare il lavoro a termine verso l’eccezione, facendo venire meno lo sbilanciamento che, secondo alcuni, si era verificato a danno del lavoro a tempo indeterminato. E’ una devozione che sappiamo non porta frutto. Anzi è una devozione fanatica perché basata su una doppia negazione (“non”) che ha riflessi importanti nei contenziosi in relazione all’onere della prova (come si fa a provare la “non” riferibilità alle attività ordinarie di impresa? Come si fa a provare la “non” programmabilità dei picchi di attività ordinaria?). Il punto è stato sollevato anche dalle parti sociali durante le audizioni dei giorni scorsi. Nei primi commenti si è detto che si ripristinerà lo sliding doors dei lavoratori, ogni 11 mesi e 28 giorni, o meno, con l’incremento di mini-lavoro a termine. Il parlamento ha colto il problema e ha provato a sistemare alcuni (in realtà, pochi) elementi del decreto legge durante l'iter di conversione.

  

Sarebbe stato utile un rewind sul lavoro a termine durante i lavori parlamentari? Forse sì, forse no. Il lavoro a termine è come un cantiere di una casa che non finisce mai, le cui fondamenta sono in parte periodicamente demolite, per costruire i piani superiori. Poi viene giù tutto. Il rewind avrebbe certamente permesso di conoscere a fondo il numero di contratti a termine, dei contenziosi, delle ispezioni, delle conversioni, durante l’applicazione della legge 230/1962, che faceva dell'eccezione il proprio punto di forza, e poi durante il d.lgs. 368/2001, con tutte le manutenzioni successive sul cosiddetto causalone, sino alle prime aperture alla a-causalità e alla funzione della contrattazione collettiva effettuate con l. 92/2012. Un rewind non avrebbe vinto del tutto le devozioni. Un rewind fatto bene necessita, infatti, di tempo e di studio, ma soprattutto di concertazione sociale (come sta avvenendo sul caso riders che, al momento, per numeri è un fenomeno davvero marginale dell’economia italiana). Poi tutto si trasforma in diagrammi, schemi, numeri, percentuali, per mostrare l’effettività dell’analisi delle decisioni politiche, seria materia scientifica, che, precedendo la norma, precede anche le devozioni. Ma è questa la traiettoria del legislatore del 2018?

  

*professore di Diritto del lavoro all'Università di Roma Tor Vergata

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