Una petroliera nello Stretto di Hormuz, vicino all'isola di Khark (foto LaPresse)

Chi non fa affari con l'Iran sotto sanzioni li fa con gli Stati Uniti

Gabriele Moccia

La minaccia di Trump a Teheran riletta con gli ultimi dati sulle forniture di greggio. L’Europa importa dall’America quello che non può avere dagli iraniani

Roma. "Chiunque farà affari con l’Iran, non farà affari con gli Stati Uniti". All’indomani del lancio ufficiale delle sanzioni americane, il presidente  Donald Trump lancia il suo ultimo avvertimento, diretto soprattutto all’Europa. Se da un lato le sanzioni petrolifere contro il regime degli ayatollah scatteranno a partire da prossimo novembre – mese delle lezioni di medio termine – è chiaro che l’epicentro delle mosse della Casa Bianca è quello energetico. 

 

 

I dati recenti sulle importazioni petrolifere di alcuni dei principali paesi europei acquirenti del greggio iraniano post accordo di Vienna, tra cui l’Italia, ma c’è anche la Spagna, la Grecia e la Francia dicono che chi non fa affari con l’Iran li fa con gli Stati Uniti.  Il mercato europeo infatti conta circa il 20 per cento del totale delle esportazioni di petrolio di Teheran, eppure, negli ultimi mesi, i flussi si sono notevolmente diminuiti, come dimostrano i dati di S&P Global Platts. Secondo la società di consulenza le esportazioni iraniane verso l’Europa sono passate dai circa 760 mila barili di greggio al giorno dello scorso marzo ai 485 mila barili di giugno (meno 36 per cento). Secondo alcuni analisti, ad agosto le raffinerie europee saranno quasi completamente prive del greggio della repubblica islamica. Al contrario, i dati sulle esportazioni americane sullo stesso quadrante sono in crescita. Sempre stando alle informazioni di Global Patts, solo l’Italia ha importato greggio statunitense ad una cifra record lo scorso giugno: circa 165 mila barili di greggio al giorno, una cifra ben superiore ali 85 mila importati lo scorso aprile (più 94 per cento). 

 

Gli Stati Uniti insidiano le quote di mercato iraniane anche sul versante asiatico. In India, il più grande acquirente di petrolio di Teheran dopo la Cina, gli acquisti dei raffinatori nei confronti dell’Iran sono crollate del 12 per cento ma, al contempo, le importazioni di petrolio statunitense hanno raggiunto 228 mila barili al giorno, più del doppio rispetto al precedente record, di 98 mila, registrato lo scorso settembre. Il presidente americano ha un obiettivo chiaro – e anche particolarmente simbolico – dopo aver spinto ancora con il secondo ciclo di sanzioni, quello più ‘letale’ di novembre che colpirà il cuore dell’economia del regime, Trump vuole rendere il Texas uno dei principali produttori di greggio dopo l’Iraq e l’Iran. In supporto al suo piano nei giorni scorsi è apparsa un’analisi condotta dal canale televisivo Hsbc secondo cui, entro il 2019 - grazie alla riduzione dei costi delle trivellazioni e all'aumento della produzione nel bacino permiano – la produzione dello stato americano dovrebbe arrivare a 5,6 milioni di barili al giorno, dai 2,5 milioni del 2014, facendo diventare il Texas diventerebbe il terzo maggior produttore al mondo, secondo solo all’Arabia Saudita e alla Russia. Per il momento sono solo suggestioni ma è chiaro che l’inasprirsi della strategia della Casa Bianca nei confronti di Teheran può portare ad esiti imprevedibili. Uno di questi, il principale, è quello legato all’andamento del pezzo del petrolio, che sarà una delle variabili principali da tenere sott’occhio nei prossimi giorni. 

 

 

Come sostengono in un report gli analisti di BOFA/Merril Lynch, qualora si verificasse un blocco totale dell’export di petrolio iraniano, soprattutto dopo novembre, il costo del greggio potrebbe salire e superare i 120 dollari al barile, portandoci sul baratro di una nuova crisi petrolifera. Gli stessi analisti della banca però ammettono che, allo stato attuale, è molto difficile per Trump riuscire a bloccare anche solo la metà delle esportazioni di  Teheran (circa 1,2 milioni di barili al giorno).  

 

La Turchia per il versante europeo e la Cina per il versante asiatico continuano infatti ad essere stabili partner commerciali di Teheran. Ankara a luglio ha addirittura aumentato le proprie importazioni di greggio passando dai 150 mila barili di greggio al giorno di maggio ai 220 mila barili, mentre da Pechino, il ministero degli Esteri cinese ha difeso la cooperazione con l'Iran, inclusa quella nel settore energetico. “La Cina e l'Iran non stanno violando i loro obblighi internazionali, abbiamo contatti convenzionali e una cooperazione che è equa e logica, legittima e ragionevole. Non c'è motivo di rimprovero”, ha dichiarato di recente il portavoce Geng Shuang. La battaglia psicologica è appena cominciata e molto potrà dipendere da chi per primo sarà portato a compiere un passo falso. In questo senso, il portavoce dei Pasdaran, le guardie della rivoluzione islamica, è tornato a stuzzicare Washington, affermando come l’Iran abbia completato la scorsa settimana con successo le sue manovre militari nel Golfo Persico, “per tenersi pronto ad affrontare possibili azioni dei nemici”. 

 

I rapporti sempre più tesi tra Stati Uniti e Iran e le ultime minacce tra il presidente Donald Trump e le risposte della sua controparte iraniana Hassan Rohani hanno spinto gli osservatori a concentrarsi sulla rotta del petrolio, e in particolare sul passaggio stretto e tortuoso dove passa il 30 per cento del greggio commercializzato via mare: lo stretto di Hormuz. I maggiori esportatori di petrolio del medio oriente dipendono da questo passaggio che collega il Golfo Persico con i corsi d'acqua globali, e da dove transita la stragrande maggioranza delle loro esportazioni di greggio, circa 17,5 milioni di barili al giorno. Come ha scritto Bloomberg, se un conflitto regionale dovesse bloccare questo collo di bottiglia, tre dei maggiori produttori di greggio del Golfo dispongono di oleodotti che consentirebbe loro di esportare fino a 4,1 milioni di barili di petrolio, ovvero meno di un quarto del totale che normalmente naviga sulle navi cisterna attraverso Hormuz. Uno scenario diametralmente opposto all’oil glut (eccesso di offerta di petrolio) in cui navighiamo oggi.

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